Ieri il presidente cinese Xi Jinping e il premier italiano Giuseppe Conte hanno firmato un memorandum d’intesa, che sancisce l’adesione dell’Italia, primo paese del G7, alla Belt and road initiative (Bri), progetto strategico varato da Pechino per costruire infrastrutture di trasporto e logistica e far rinascere la via della seta, avviata nel secondo secolo d.C. dalla dinastia Han: la Via della Seta era una rete commerciale creata per collegare l’impero cinese con l’impero romano. La Bri prevede la realizzazione e la gestione di nuove infrastrutture e l’ammodernamento di quelle vecchie. Strade, linee ferroviarie ad alta velocità, porti, gasdotti, ponti, hub logistici sono opere funzionali al progetto del governo cinese, il quale per il loro finanziamento ha creato una nuova banca multilaterale, la Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture (Aiib).
Lo scopo ultimo di questa strategia è creare una corsia preferenziale di accesso sui mercati mondiali per le aziende cinesi (soprattutto i grandi conglomerati di Stato, ormai colossi internazionali), le quali necessitano di un naturale sbocco per collocare la sovra capacità produttiva, molto evidente in settori quali l’acciaio e le costruzioni.
Dal 2013, la Repubblica Popolare Cinese ha investito oltre 700 miliardi di dollari di denaro pubblico in oltre 60 Paesi, soprattutto in grandi progetti infrastrutturali (porti e ferrovie), spesso in forma di prestiti erogati ai governi dei Paesi che hanno aderito al progetto. Il modello cinese ha avuto successo per il suo approccio “pragmatico” e soprattutto per l’assenza di tutti i vincoli normalmente posti dalle istituzioni occidentali: sostenibilità finanziaria, rispetto dei diritti umani, regole rigide in materia di corruzione, verificabilità dei progetti. Molte Nazioni si sono però indebitate in modo eccessivo e insostenibile nei confronti di Pechino. La “trappola del debito” ha reso diversi Paesi troppo vulnerabili nei confronti della Cina e le reazioni non si sono fatte attendere.

Cos’è la trappola del debito?

Questa situazione si configura quando un Paese grande e ben dotato dal punto di vista economico e finanziario fa credito a un paese più piccolo e mediamente povero che, a un certo punto, non è più in grado di onorare il suo alto debito. Il paese indebitato si trova quindi ostaggio della volontà del creditore, che può “ricattarlo” o chiedere delle contropartite per il mancato pagamento, come la cieca obbedienza politica o l’espropriazione di beni e risorse. Otto Nazioni che hanno aderito alla Bri sarebbero ad alto rischio di cadere nella trappola del debito. La Cina detiene una fetta rilevante del debito estero di questi Paesi, i quali potrebbero finire per perdere, di fatto, parte della loro sovranità, nonché le loro scelte politiche, economiche e finanziarie.
La domanda che tanti osservatori si fanno è: “Considerando la cattiva salute dei conti pubblici nostrani, partecipando alla Bri l’Italia rischia di cadere nella trappola del debito cinese?”.La risposta molto probabilmente è no. I Paesi che corrono questo pericolo sono piccoli, poco popolosi (eccetto il Pakistan) e poveri se confrontati all’Italia. Il nostro, almeno sulla carta, è una delle Nazioni più ricche del mondo, membro del G7, fondatore dell’Unione Europea, con un’economia che, nonostante la bassa crescita degli ultimi decenni e le deficienze strutturali, è solida, ricca e diversificata. Ad ogni modo, questa questione potrà essere meglio argomentata solo si conosceranno nel dettaglio i piani infrastrutturali che i cinesi intendono realizzare nel nostro paese.
Inoltre, non bisogna dimenticare che l’Italia è membro della Nato, da settant’anni componente della famiglia occidentale, nonché pedina fondamentale dell’ordine internazionale americano. Questi fattori lasciano supporre che un eccessivo flusso di investimenti e finanziamenti cinesi in Italia verrebbe duramente osteggiato dagli Stati Uniti. Ciò è molto plausibile, considerando che l’amministrazione americana ha già fatto sentire la sua voce nel momento in cui è stato reso noto che l’Italia era vicina a firmare il memorandum d’intesa per aderire alla Bri. Se Washington si oppone alla firma del memorandum, figuriamoci cosa farebbe nel momento in cui i cinesi iniziassero a finanziare massicciamente opere infrastrutturali in Italia.
Oltre alla robustezza dell’economia italiana, lo stretto rapporto tra il nostro paese e gli Stati Uniti, che vedono nella Cina un avversario strategico in grado di minacciare la loro egemonia globale, si configura quindi come il secondo fattore che dovrebbe escludere definitivamente che l’Italia cada nella trappola del debito cinese.