Antonella Postorino

Sugli strascichi delle polemiche dei giorni scorsi, senza alcuna pretesa, questa tardiva riflessione vuole cogliere l’occasione per andare alla ricerca di risposte che in “tempi di pace” sarebbe più faticoso assegnare alle corrispondenti domande. Partendo dal presupposto che la diffusione del Covid 19non dipenda dallo status di “lavoratore”, sia esso del Nord o del Sud, va riconosciuto che in Italia il “lavoro” oltre a essere l’emblema costituzionale sul quale si fonda la stessa Repubblica (art.1), è la principale “coordinata geografica” ai fini del riconoscimento delle identità territoriali.
Non a caso, dal punto di vista economico, in Italia le maggiori criticità legate agli indici di occupazione si individuano geograficamente ancor più che socialmente, basti ricordare che il Mezzogiorno per tanto tempo è stato considerato “un problema” da risolvere, fino a diventare il simbolo di tutti i fallimenti, quindi il modo più semplice per eliminare “il problema”. Per questo motivo, l’identificazione geografica del lavoro può indurre a pensare che al Sud si lavori di meno perché meno propensi e non perché privati delle condizioni necessarie a rendere esecutivo il “diritto di lavorare” (art.4 Costituzione).
Ipotesi tra l’altro illogica considerando che fin dal secondo dopoguerra la forza lavoro del Sud viene regolarmente trasferita e impiegata al Nord, tanto da non riuscire più a individuare settentrionali che non abbiano origini meridionali. Così provando a rimpastare domande in grado di attivare riflessioni, non bisogna che sperare in estrarre quella giusta.

Che cosa c’entra la geografia del lavoro con la diffusione del virus?

C’entra, perché mentre il lavoro è considerato una coordinata geografica, l’essere devoti allo stesso non è una variabile dipendente dallo spazio fisico, pertanto in qualsiasi settore, pubblico o privato, dipendente o autonomo, l’etica professionale è un valore morale che non distingue il lavoratore del Nord da quello del Sud. Sul piano qualitativo, invece, non va sottovalutato che il lavoratore del Sud è spesso privato dei giusti sussidi, in termini di compensi, dotazioni, servizi, trasporti, criticità che delineano il vero gap tra le due Italie. Qualora la trasmissione del virus dovesse dipendere esclusivamente dallo status di lavoratore, tale teoria non sarebbe però valida nel caso in cui l’applicassimo all’uso del “tempo libero”, per esempio andare in discoteca o riunirsi con gli amici al bar: infatti l’alternativa al lavoro è semplicemente il “non lavoro”, in poche parole la trasmissione del virus non avviene esclusivamente attraverso l’attività lavorativa.

Il virus ha ridotto il divario tra Nord e Sud?

Ammesso che sia vero che il “lavoro produce lavoro”, l’insufficienza di servizi, infrastrutture, mezzi, reti e collegamenti mette in forte discussione l’opportunità di innescare processi di sviluppo economico, rimanendo la causa principale dell’isolamento di alcune regioni del Sud rispetto al resto d’Italia e anche d’Europa. Persino il virus non ha avuto la forza di ridurre questo divario, non riuscendo a espandersi come avrebbe voluto e non trovando le giuste “coincidenze” e la necessaria “velocità” per raggiungere subito l’estremo Sud.
Bisogna riconoscere che per la prima volta il ritardo e l’isolamento rispetto al resto d’Italia hanno giocato a favore del Sud, e tutto sommato esserne abituati a vivere nell’attesa dovrebbe rendere meno drammatico il distacco da una quotidianità che funziona con ritmi di per sé più lenti e incerti.
La verità è che al Sud i meridionali sono in quarantena da 159 anni, pertanto il loro isolamento è una condizione ormai “naturale”, che li rende perennemente in attesa di una quasi sconosciuta “normalità”. Non è ancora chiaro se questo ritardo sia ormai geneticamente acquisito, perché sebbene la Napoli-Portici, prima linea ferroviaria italiana, risalga al 1839, ancora oggi alcuni treni, più giù di Napoli, non arrivano, come l’alta velocità ferroviaria (quella che viaggia ad oltre i 250 km/h), invece ritenuta indispensabile al Nord, per collegare città vicinissime in tempi brevissimi. Per fare un esempio, il tempo medio di percorrenza tra Firenze e Bologna (circa 106 km) è di 39 minuti con la disponibilità di oltre 47 corse al giorno, invece tra Reggio Calabria e Crotone (168 km) se tutto va bene si impiegano 3/4 ore e la disponibilità dei viaggi corrisponde a circa 3 corse al giorno su vetture improponibili. A questo proposito il paradosso è che, la maggior parte delle commesse di Trenitalia (Frecciarossa 1000 e Vivalto), Trenord (TSR), ATM (Leonardo e Meneghino) e delle maggiori linee metropolitane di tutta Europa, passano dagli impianti delle ex O.Me.Ca. (Ansaldo Breda oggi Hitachi Rail Italy) di Reggio Calabria, città nella quale di miraggi legati alle infrastrutture e al loro ammodernamento se ne sono visti tanti, ma forse solo per effetto della Fata Morgana. Inutile, infatti, ricordare la favola della Salerno-Reggio Calabria, le magiche manovre sull’Aeroporto Metropolitano e il fantomatico Ponte sullo Stretto, che ha prodotto investimenti ancor prima degli sbancamenti.
La verità è che a nessuno interessa quanto questa velocità possa essere utile per frenare lo spopolamento, né quanto l’ammodernamento delle reti e il miglioramento dei servizi possano trasformare quelle che oggi sono viste esclusivamente come vie di fuga in opportunità di sviluppo, perché senza trasporti non c’è lavoro, non c’è pendolarismo, non c’è turismo, non c’è la possibilità di restare. Alla carenza delle infrastrutture, bisogna aggiungere l’esodo giovanile, che oltre a essere il motivo della chiusura di numerosi corsi di laurea, è anche causa dell’aumento dell’inoccupazione, poiché l’indotto economico che gravita attorno alle esigenze dei giovani, in termini di produzione di beni e servizi, subisce le conseguenze del declino demografico. Volta e gira, non a caso già nel 1935 Cristo si fermava ad Eboli lasciando che il profondo Sud rimanesse sempre più “isolato” e lontano da quella politica sensibile solo agli interessi del Nord.

Quali realtà sono emerse da questa situazione?

Quasi per magia, il Sud si è ritrovato da territorio emarginato a isola privilegiata, fin quando l’errata (tardiva) valutazione degli eventi ha consentito al virus si espandersi. La cattiva gestione dei flussi migratori da rientro nelle regioni d’origine è stata la principale causa dei contagi, che seppur minimi rischiano di aumentare giorno dopo giorno. Proprio perché il lavoro è una coordinata geografica, fin da subito si sarebbe dovuto mettere in conto che la forza lavoro trasferita al Nord, una volta fermate tutte le attività produttive, avrebbe avuto l’esigenza di rientrare alle “origini”. Nessuno ha considerato che studenti e lavoratori si sarebbero trovati in difficoltà a vivere lontani da casa, molti di loro senza la possibilità di sfamarsi.
L’emergenza ha semplicemente messo in luce quelle realtà di cui siamo a conoscenza tutti. Il virus ha solo tracciato una mappa del territorio nella quale hanno preso forma, a caratteri fluorescenti, tutte le debolezze che l’esercizio del “silenzio assenso” ha legittimato facendole passare come “norma”. È emerso che al Sud le infrastrutture sono fatiscenti, obsolete, inefficienti e insufficienti, che la maggior parte degli italiani lavora al Nord, che in tutta Italia la sanità sta esplodendo, con l’aggravante che al Sud non è in grado neanche di far fronte alla bassissima percentuale di casi registrati, pertanto i meridionali non devono assolutamente ammalarsi. Si è potuto constatare che non esiste una politica di condivisione dell’area Metropolitana dello Stretto, figuriamoci se si potrà mai concordare uno sviluppo aeroportuale Metropolitano dello Stretto.Gli italiani dovrebbero trarre insegnamento da questa esperienza, guardare meglio la cartina geografica del loro Bel Paese e farsi quelle domande che in “tempo di pace” non trovano risposte.
Solo così quando si parlerà del Sud, e dei suoi abitanti, lo si farà con il dovuto rispetto per quei figli “naturali” di un Dio minore che non hanno mai ricevuto il pieno riconoscimento di legittimità, forse solo per questo meno esposti al virus.