Morire per vincere una sfida. Si tratta del – purtroppo – ennesimo dramma legato alla “Blackout Challenge“, una delle tante terribili gare che viaggiano veloci “grazie” ai social network. La piccola Antonella, dieci anni appena, è solo l’ultima delle sin troppo numerose vittime di quella che viene definita impropriamente una sfida, ma che invece è a tutti gli effetti un vero e proprio crimine, un invito neanche troppo velato a farsi del male o, ancora peggio, a privarsi della propria vita alla ricerca di sensazioni forti.

Regina di TikTok

La vicenda di Antonella ha sconvolto l’opinione pubblica, a partire dalla famiglia e dagli amici della bimba residente a Palermo. Una vita tranquilla, simile a quella di ogni altra creatura della sua età – la scuola, le sorelle, le amichette, i compiti – scandita, come spesso accade nonostante la giovanissima età, da una irrefrenabile voglia di apparire, soddisfatta grazie agli innumerevoli profili virtuali che la piccola gestiva con disinvoltura dal suo smartphone: “Rubava sempre il cellulare a sua madre e scaricava TikTok – ha raccontato il padre della piccola, che ha ricevuto il suo primo smartphone al decimo compleanno – Allora ci siamo arresi. Ballava e cantava, scaricava tutorial per truccarsi o per acconciare i capelli. Avrebbe voluto fare l’estetista da grande. Pubblicava questi video su TikTok ed era anche una bambina molto ubbidiente“.
Antonella, dunque, non aveva mai fornito ai suoi genitori motivi di preoccupazione. Almeno sino a due sere fa quando, desiderosa di partecipare alla oramai arcinota “Blackout Challenge”, ha chiesto al padre in prestito una cintura, si è chiusa in bagno e si è uccisa tramite strangolamento. Tutto in nome di una sfida letale, drammatica, senza alcuna logica.
Il resto è, purtroppo, cronaca nota. La bambina è stata trasportata in ospedale da genitori e zii, dove è giunta in condizioni già critiche; nella giornata di ieri Antonella è stata dichiarata cerebralmente morta ed i suoi genitori hanno autorizzato l’espianto degli organi, per dare senso ad una morte che continua a non averne. “Voleva essere la regina di TikTok e ci è riuscita“, ha sentenziato suo padre, un uomo distrutto che non riesce a comprendere come la sua bambina abbia potuto cedere al fascino di una sfida carica di pericoli. Proprio lei, Antonella, che i genitori hanno definito una bambina ubbidiente, tendente alla condivisione, affidabile anche con le sorelline più piccole. Come ha potuto una figlia “modello” cedere al controverso fascino delle sfide social?

Alla ricerca di un colpevole

Il caso di Antonella ha ovviamente scosso l’opinione pubblica. Mentre le indagini giudiziarie procedono senza sosta – ed i vertici di TikTok esprimono cordoglio e vicinanza alla famiglia della giovane vittima – psichiatri, giornalisti, genitori cercano di fornire la propria opinione riguardo una vicenda terribile, che avrebbe potuto avere come protagonista qualunque figlio, nipote, fratello. La prima domanda che tutti si pongono è: come poteva una bambina così piccola avere un accesso illimitato a tutti i principali social network? Come recita un adagio, “Fatta la legge, trovato l’inganno“: nonostante Facebook, Instagram e TikTok impongano un’età minima di 16/18 anni per accedere alle proprie piattaforme, è altresì facilissimo falsificare i propri dati anagrafici e postare tutto quel che ci pare senza un benché minimo filtro di controllo.
La “Blackout Challenge” – nota anche come “Hanging Challenge” – è solo una delle tante sfide letali presenti sui principali social network. Basti citare, una su tutte, la drammatica “Blue Whale” che tante vittime ha mietuto, soprattutto all’estero. Lo scopo di queste lotte per la sopravvivenza è solo uno: sballarsi, provare l’ebbrezza di sentirsi invincibili, incuranti del fatto che la posta in gioco sia la propria vita. I ragazzini sono le prede ideali da adescare, proprio perché non sono pienamente consapevoli della pericolosità di certi comportamenti.
Una volta effettuato questo ragionamento, scatta irrimediabilmente la seconda domanda, la più tediosa: dov’erano i genitori di Antonella quando la bambina navigava senza controllo nell’universo affascinante ma pericoloso della rete? Proprio sulle principali piattaforme social – ironia della sorte – spuntano come funghi le critiche feroci degli internauti, che puntano virtualmente il dito contro la mamma ed il papà della bimba di Palermo, come se non fosse sufficiente il senso di vuoto e di colpa provocato in loro dalla perdita della propria creatura. E’ vero, i bambini andrebbero protetti da un universo tanto seducente quanto complesso; è altrettanto vero, però, che non sempre è facile tenere lontani i propri giovani cari dalle tentazioni della Rete, proprio perché sono in primis gli adulti a cedere alle lusinghe di Facebook, Twitter e simili.
Ai genitori della bimba resterà il rimpianto di non aver potuto evitare un evento così tragico; alla Giustizia spetterà il compito di incriminare i veri colpevoli di quello che a ragione può essere definito un’induzione al suicidio; al resto del mondo, forse, toccherebbe porre una mano sul cuore e smettere di giudicare un dramma che avrebbe potuto, purtroppo, investire ciascuno di noi.