Ad un anno e mezzo dall’ultima recensione, eccomi a scriverne un’altra per “Cinematocrito“, questa volta ispirato dalle votazioni in corso per l’elezione del prossimo Presidente della Repubblica. Mettetevi comodi e scoprirete perché, procediamo con ordine. Lucio Fulci: non c’è bisogno di ulteriori presentazioni. Abile cineasta-artigiano, prolifico, saltellante da un genere all’altro, ma un tantinello sopravvalutato: celebre soprattutto per i thriller e gli horror rivalutati dalla fine degli anni Ottanta in poi, Fulci, nella sua lunghissima carriera (solo come regista, dal 1959 al 1992, ma se andiamo ad esaminare il suo lavoro da sceneggiatore, dobbiamo retrodatare addirittura ai primi anni Cinquanta) ha in realtà sfornato titoli di ogni tipo, alcuni ottimi, altri buoni, diversi pessimi…eh sì, bisogna essere obiettivi! Di Fulci e di quello che penso di lui ho già parlato in un altro articolo (qui il link), dunque non perdiamo altro tempo ed alziamo il sipario sulla sua commedia del 1972 All’onorevole piacciono le donne, conosciuto anche con il titolo simil-Wertmuller Nonostante le apparenze e purché la Nazione non lo sappia…all’onorevole piacciono le donne.

Trama

Roma, Montecitorio: alla Camera si stanno svolgendo gli scrutini per la nomina del nuovo Capo dello Stato ed è subito evidente come il rosario dei candidati si stia riducendo a una sfida tra due soli nomi: l’ex premier Giacinto Puppis ed il senatore Torsello. Questi ultimi si recano all’aeroporto per accogliere la presidentessa della repubblica immaginaria dell’Uria; Puppis, soggetto frustrato sessualmente e manovrato dalla mafia e la Chiesa, preso da un raptus inizia a toccare le chiappe della donna. L’imbarazzante gesto viene colto dall’obiettivo di un operatore tv, che ricatta Puppis interpellando come tramite il frate domenicano (molto gaudente) Padre Lucion, amico e guida spirituale dell’onorevole.
Terrorizzato all’idea che un possibile scandalo possa mandare all’aria la sua elezione a presidente, nonché costretto a combattere i suoi demoni interiori che ha sempre represso, Puppis (e chi sta dietro di lui) inizia una serie di manovre occulte per impedire la catastrofe, mentre si rifugia ufficialmente in ritiro spirituale in un convento di monache tedesche, in cui darà sfogo alle sue voglie trattenute con suor Delicata. Tra allucinazioni erotiche, macchinazioni, sotterfugi e minacce di Cosa Nostra, Torsello sarà infine tolto di mezzo con un “provvidenziale” incidente aereo, Puppis nominato massima carica dello Stato, mentre tutti i testimoni scomodi della vicenda verranno “canonizzati” (cioè, fatti sparire).

Una commedia, ma anche no

Raccontato così, il film potrebbe sembrare, all’orecchio di un ascoltatore distratto, un’opera drammatica, dettagli goliardici a parte. E invece no: signori miei, questa è una commedia, anche se lo si capisce solo perché il protagonista è Lando Buzzanca, che caratterizza egregiamente il patetico Puppis. Ma per il resto, anche qui ci troviamo al cospetto di un film il cui messaggio ha superato di gran lunga i propositi del regista: a Fulci riesce la rappresentazione di un sistema, quello politico – sociale dei primi anni Settanta, già pervaso dal cinismo, l’indifferenza, l’immoralità giustificata e l’egocentrismo (oggi, purtroppo, parti integranti della società) in cui non si salva nessuno, dai parlamentari ai media, dalla Chiesa alla gente comune, ma lo fa attingendo superficialmente dalla cronaca di allora e senza graffiare troppo (il regista romano non possedeva il mordente di un Monicelli, un Salce oppure un Petri), ma in buona parte delle sequenze anticipa quel grottesco macabro ed inquietante che pochi anni dopo verrà sviluppato meglio, ad esempio, da Pupi Avati, prefigurando le sue future pellicole (tra l’altro, proprio in quegli anni Fulci aveva già firmato dei thriller argentiani intrisi di crudeltà e venature horror come Una lucertola dalla pelle di donna e Non si sevizia un paperino).
In molte scene si avverte un senso di cupezza ed inquietudine che non ti aspetti in un film comico: la fotografia contrastata, oscillante tra toni neri e luce sovraesposta, curata da Sergio D’Offizi (che spesso e volentieri illumina i volti dal basso verso l’alto) unita alla musica per niente allegra di Fred Bongusto, ci immerge in un’atmosfera generante incertezza ed ansia, un’angoscia sotterranea che sembra rimarcare quella interiore del protagonista piuttosto che ridicolizzarla. Per non parlare degli effetti speciali artigianali, ma di forte impatto, di Giannetto De Rossi, qui alla seconda collaborazione con Fulci ed in seguito suo effettista di fiducia: la sequenza del sogno erotico di Puppis sarà anche da olimpo del trash, come sostengono alcuni, ma le scenografie ed i trucchi di De Rossi lo fanno sembrare un viaggio in un tunnel dell’orrore, ben oltre le intenzioni satiriche del film.
E le sequenze con le statue di cera? Ma qualcuno, durante la produzione, non si era accorto che non divertono affatto, ma fanno invece venire gli incubi? Come accennato nella trama, chi ha avuto modo anche solo di assistere alle porcate di Puppis viene “canonizzato” dal cardinale siciliano Maravidi (Lionel Stander), ossia ucciso e trasformato in statua religiosa all’interno di una fabbrica di cera di proprietà della mafia. Quando Maravidi porta Puppis, che sta meditando di mollare la politica, in una chiesa in cui vi sono diverse vittime trasformate in statue di santi (e che il protagonista conosceva bene) per minacciarlo, la scena è spaventosa, tanto più che per realizzare i simulacri De Rossi ha usato dei calchi identici in tutto e per tutto ai medesimi che realizzò poi per le pellicole horror fulciane, come Zombi 2 e L’aldilà. Illuminate con luci biancastre contro uno sfondo nero, orribilmente realistiche nonostante gli sguardi fissi ed ebeti, non suscitano alcun sghignazzo, lo spettatore è terrorizzato esattamente come il protagonista senza alcuna possibilità di risata liberatoria confermando quella fama di “terrorista di generi” e “poeta del macabro” che Fulci riscuoteva tra i critici internazionali.

Un sistema sociale malato

Ma quelli che potrebbero sembrare elementi al passivo, acquistano subito un nuovo significato se proviamo a concepirli come evidentemente aveva fatto il nostro Lucio. A quanto pare, sulla carta il film doveva essere una commedia molto più amara, con una prevalenza delle scene grottesche e macabre su quelle goderecce o di grana grossa; addirittura, alcune voci sostengono che tali scene fossero state effettivamente girate e che la pellicola durasse molto di più (lo stesso Fulci ed il produttore Edmondo Amati lamentarono alcuni tagli da parte della commissione di censura).
Ma va riconosciuta al regista l’abilità (seppur approssimativa e grossolana) di essere stato tra i primi a carpire subito la cappa di insicurezza e paura della società italiana, che in capo ad appena un anno si sarebbe tramutata nei famigerati anni di piombo; quel sentore, alimentato dagli sconvolgimenti sociali e dai primi terribili attentati, che tra le istituzioni e nel quotidiano serpeggiasse qualcosa di orribile e non esplicato e, per giunta, che nessuno facesse nulla per fermarlo. Ma anche l’aver avvertito quell’orrido cinismo insito in un sistema istituzionale ormai distaccato dalla realtà quotidiana e propenso più a conservare la poltrona sotto il deretano (un’immagine, quella del posteriore, che infatti torna più e più volte nel corso del film), invece che a pensare al bene della Nazione e dei cittadini (basta vedere il primo dialogo tra Puppis e Torsello, un vero capolavoro di accordi, intrallazzi e promesse tra deputati solo apparentemente avversari politici), un sistema che, ieri come oggi, sollecita e giustifica le più bieche azioni immorali pur di mantenere l'”ordine” o il cambio di casacca per riequilibrare di continuo l’assetto parlamentare e mantenere il compromesso (in una scena, Puppis viene definito “l’esponente della frangia di sinistra della componente di destra del partito di centro”).
Una politica così sganciata dal mondo da non rendersi conto dei cambiamenti epocali che emergevano nella società, soprattutto nel campo della moda, sottolineanti di come il timore dello scandalo esista solo nella mente di un individuo legato ad un partito reazionario ancora connesso al passato, che non comprende come al popolo non interessi nulla delle frustrazioni sessuali del prossimo Capo dello Stato; popolo che, è bene sottolineare, nella visione di Fulci è ormai irrimediabilmente corrotto anch’esso dal cinismo, nonché intontito dal consumismo social-televisivo, da non accorgersi di tutto il marcio e l’orrore (appunto!) che scorre sotto i suoi piedi (il film si apre con un pubblico incollato allo schermo per assistere ad una partita di calcio snobbando le elezioni in Parlamento e si chiude con un telequiz che interrompe il discorso tv agli italiani del neo eletto Puppis): in questo senso, gli eccessi grotteschi trovano un motivo di esistere nel film.
Ma Fulci va ben oltre e, nonostante un’impianto narrativo innocuo, sembra voler sfidare la censura (che infatti colpì il film ma, curiosamente, non per le tematiche erotiche e le scene di nudo, ma per le sequenze che esplicitavano il connubio mafia-chiesa-politica): Puppis e colleghi, nel modo di vestire e gesticolare, sono chiaramente dei democristiani, anche se per precauzione la Dc non viene mai nominata; la somiglianza (a detta di Fulci, casuale) del trucco di Buzzanca con l’allora premier Emilio Colombo; le insistite ambiguità sessuali, dall’autista gay interpretato da Aldo Puglisi all’evidente attrazione che Puppis sembra provare non solo verso le donne, ma anche per gli uomini; il linguaggio scurrile che in tempi di politicamente corretto non sarebbe più possibile (che nostalgia!). Per non parlare di come venga dipinta la Chiesa, con un azzardo ai limiti della blasfemia: dal cardinale descritto come il capo dei capi di Cosa Nostra all’intero sistema ecclesiastico che predica la religione dell’aldilà ma pratica tranquillamente quella dell’aldiquà, un circo di soggetti insoddisfatti e senza vocazione che pensano solo ad arricchirsi ed a mantenere il potere (curiosamente, lo sboccato frate Lucion sembra per paradosso il meno peggio, più che altro perché è l’unico che prova un’amicizia sincera per Puppis, considerato invece solo un burattino manovrabile dal cardinale Maravidi).
Ma il coraggio d’autore fulciano finisce purtroppo qua: come spesso accade nei suoi film, il regista si preoccupa maggiormente del botteghino, per cui All’onorevole piacciono le donne è anche una sequela volgarotta di commedia degli equivoci, situazioni forzate per strappare una risata al pubblico o per inserire nudi femminili (tra cui quello, splendido, di Laura Antonelli che interpreta la vogliosa suor Delicata), e c’è anche spazio per una sottotrama autoconclusiva che non aggiunge nulla, con le alte sfere di esercito e polizia le quali, equivocando su una telefonata intercettata tra Puppis e padre Lucion, credono che il nostro protagonista stia organizzando un colpo di Stato (allusione nemmeno troppo velata al tentato Golpe Borghese).

Gli attori

Un altro aspetto positivo della pellicola sono gli attori, che danno l’impressione di divertirsi un mondo.
Lando Buzzanca, che si allontana dall’immagine abituale del bietolone perennemente vittima degli eventi, si cala con disinvoltura nel ruolo dell’onorevole protagonista, ritraendo un omuncolo represso e disgustoso, persuaso ad odiare le donne, bigotto e talmente ossessionato dalla politica da fare discorsi ampollosi perfino quando litiga con qualcuno o sta facendo sesso, assolutamente non incolpevole, ma anzi complice del sistema che lo sfrutta, ipocrita e spietato sotto l’aria del bonaccione. Laura Antonelli, la cui presenza fu molto pubblicizzata all’epoca (e infatti, il pubblico maschile accorse in massa) e che sarebbe esplosa definitivamente l’anno dopo con Malizia, interpreta la parte a lei più congeniale: la donna in apparenza morigerata (una suora, in questo caso) che però, o forse proprio in virtù di questo, scatena delle pulsioni irrefrenabili; peccato che il suo sia un tipico personaggio da letteratura pruriginosa.
Ma i più curiosi e, tanto per ribadirlo, grotteschi, sono Renzo Palmer e Lionel Stander, il primo nei panni di padre Lucion, triviale, gran fumatore e bevitore (e convinto sostenitore dell’abolizione del celibato ecclesiastico), ma convinto a modo suo che la Chiesa debba tornare alla semplicità evangelica, il secondo nei panni del sinistro cardinale Maravidi (somigliante sorprendentemente a monsignor Marcinkus) interessato a tutto tranne che al Vangelo, che sembra muovere i fili sia dell’intera politica italiana che della mafia, i cui boss (tra cui il bravo Corrado Gaipa) sono visibilmente intimoriti da lui.

Curiosità
  • Durante la lettura dei nomi dei candidati in Parlamento, viene nominato un certo onorevole Salvini;
  • L’attore che interpreta il senatore Torsello è il russo (naturalizzato italiano) Fëdor Fëdorovič Šaljapin, che nel 1986 impersonò il venerabile Jorge ne Il nome della rosa di Jean Jacques Annaud.