E’ iniziata con un forte afflusso di pubblico la 19° Festa del Cinema di Roma; le pellicole d’apertura della kermesse all’Auditorium della Musica non hanno deluso (soprattutto il film dedicato al defunto e ormai leader del Pci), anche se una di loro ha lasciato un po’ basita la platea per quanto concerne il linguaggio (non) filmico scelto. Anzi, posso dichiarare di aver assistito oggi alle proiezioni di un film e un anti-film (ma non necessariamente in senso negativo, come ci stiamo accingendo a vedere). Iniziamo dal film.
Enrico, ti vogliamo bene: “Berlinguer, la grande ambizione”
Un fragoroso battimano di un paio di minuti ha animato la prima di Berlinguer, la grande ambizione di Andrea Segre, presentato nella sezione Progressive Cinema e distribuito da Lucky Red, che uscirà in tutti i cinema della Penisola il prossimo 31 ottobre. La motivazione è indubbiamente il forte sentimento e trasporto di tantissime persone per Berlinguer, l’affetto incondizionato verso un uomo intelligente e capace, dal grandissimo spessore umano, la cui parabola politica viene ancor oggi percepita da molti come il Bene assoluto che avrebbe potuto salvare il paese Italia dal buio (tanto per citare una frase del film) e dalla crisi della recessione se solo non si fosse interrotta bruscamente nel lontano 1984. Anche il film, bisogna dirlo, condivide per buona parte questo assioma e, nonostante sia ben girato ed interpretato da Elio Germano (ora ci arriviamo), in quasi ogni inquadratura trasuda di un’ammirazione smodata e priva di dubbi contribuendo, volontariamente o meno, a questa beatificazione in parte eccessiva di una figura importante di un’epoca in cui ancora in Italia fare politica significava credere nelle proprie idee e adoperarsi per la cosa pubblica (una concezione che i mala tempora odierni fanno sembrare ingenuo ed obsoleto).
La trama, molto lineare e senza passaggi bruschi, ripercorre la vita di Enrico Berlinguer per buona parte degli anni Settanta, precisamente tra il 1973 (anno del golpe in Cile e del misterioso incidente, mai chiarito del tutto, a cui il leader comunista scampò miracolosamente in Bulgaria) e il 1978, anno del progetto del famoso “compromesso storico” con la Dc (la grande ambizione del titolo, che si rifà ad un aforisma di Gramsci, citato in apertura). In tutto questo vediamo l’esistenza e l’agire di un uomo diviso tra gli affetti familiari e l’attaccamento non meno importante verso il partito e gli elettori, che si muove deciso, tra mille difficoltà e qualche volta solo contro tutti, verso il concepimento di un comunismo più in linea con le forze democratiche occidentali e meno vassallo dell’Unione Sovietica, una mossa che gli portò sospetti da parte degli avversari, mugugni dei gruppi più radicali del Pci e l’arroganza e la prepotenza dei russi, per nulla felici di vedere un “eurocomunismo” in parte sganciato dal socialismo reale.
In mezzo ci sono il referendum sul divorzio, la strage di Brescia, il confronto con i compagni e i lavoratori e il dialogo con la Democrazia Cristiana per riuscire ad ottenere degli incarichi di governo e che portò alla terribile vicenda del sequestro Moro. E’ ben focalizzata questa dualità dell’animo di Berlinguer, a partire dalla pregevole fotografia luminosa quando si tratta di filmare il segretario alla prese con la famiglia, il partito e le responsabilità verso i lavoratori, e inquietante ed oscura nelle scene in cui tratta con i democristiani per il compromesso, soprattutto con Giulio Andreotti (interpretato da Paolo Pierobon e dipinto in maniera un po’ troppo caricaturale). Insomma, anche se il film ammette che da un lato negli anni Settanta era difficilissimo restare comunisti tra tentativi di cambiamento, ingerenze russe e americane, scontri con gli stessi compagni di partito, la violenza nelle piazze e il sangue sparso dal terrorismo di ogni colore, dall’altro s’abbandona alla pedante narrazione (col senno di poi) che il famoso compromesso avrebbe potuto davvero risollevare le sorti del Bel Paese e che, soprattutto, sia stato un’anticipazione del bipolarismo e di tutta la nuova politica degli anni 90. Ma fu davvero così? Per chi scrive, assolutamente no: senza dubitare della buona fede e del genio politico di Berlinguer, la morte stessa di Aldo Moro, alla fine del film, dimostra che l’accordo, molto probabilmente, non avrebbe portato da nessuna parte, con o senza morti e sequestri. Perché? Semplicemente per via dei delicatissimi equilibri internazionali dell’epoca (anzi, squilibri) che mai avrebbero potuto sostenerlo anche se qualcosa fosse magari poi approdata in porto. Non erano, in parole povere, tempi maturi, in più si trattava appunto solo di un compromesso quasi disperato, non certo un tentativo di portare aria nuova alla politica italiana. In fondo a Berlinguer tutti noi, compreso il sottoscritto, vogliamo bene non tanto per questo sogno politico, ma perché ebbe il coraggio di andare a cantargliele ai sovietici e ad immaginare di poter andare oltre il seguire pedissequamente gli ordini da Mosca. Ha sognato un comunismo davvero a misura d’uomo e di lavoratore? Sì, ed è questa la sua eredità più grande.
Ed infatti, questa piccola eppure grande figura di uomo e sognatore è ben interpretata dal sempre bravissimo Elio Germano, meno camaleontico del solito, ma che riproduce fedelmente la parlata sarda, il modo di camminare, persino i difetti fisici di Berlinguer per enfatizzare ancora di più l’illimitata anima politica e sociale. Un agnello che spesso si tramuta in leone, ma anche un santino o uno spettro che ancora ossessiona chi lo ha apprezzato.
L’anti- film: l’americano Nickel Boys, o del cinema bello ma confuso
Abbiamo detto “anti-film”? Beh, è quanto di più lontano si possa definire un film, ma non saremo cattivi. Piccola premessa: chi scrive non ha letto il romanzo di Colson Whitehead “I ragazzi della Nickel”, premio Pulitzer 2020, da cui il film è tratto, quindi per questa recensione si baserà esclusivamente sul film. La trama: Tallahassee (Florida, anche se il film è stato girato per buona parte in Louisiana) anni ’60. Tra violenza, battaglie per i diritti civili e l’astro nascente di Martin Luther King, il giovanissimo afroamericano Elwood Curtis, studioso, sveglio e destinato all’università, viene arrestato per un equivoco e finisce dritto al riformatorio “Nickel Academy“, dove stringe amicizia col cinico e rassegnato Jack Turner. La Nickel è un inferno in cui il direttore e i sorveglianti (quasi tutti bianchi) sottopongono i detenuti minorenni (quasi tutti neri) ad ogni sorta di abuso fisico, psicologico ed anche sessuale, impiegandoli in nero nelle piantagioni della zona oppure organizzando incontri clandestini di boxe. Per chi si ribella la punizione è la morte e la sparizione dei cadaveri (a quanto pare, il film è tratto da una storia vera), mentre alle famiglie viene fatto credere che i figli siano scappati e finiti chissà dove. Per Elwood e Jack l’unica soluzione sarà la fuga, anche se un destino atroce attende uno dei due all’angolo, ma un colpo di scena finale lascia un po’ di speranza e di ottimismo.
Presentato nell’ambito della costola della Festa “Alice in città”, dedicata ai talenti giovani, la pellicola diretta da Ramell Ross evita accuratamente qualsiasi legame con le attuali tensioni razziali statunitensi e si limita a riflettere su un passato neanche troppo lontano della storia americana. Di questo gliene siamo grati: non fa mai uso della retorica e neppure dei mezzi più plateali, ma le sue argomentazioni sul razzismo e la discriminazione arrivano un po’ in ritardo rispetto ad altri film meglio riusciti dei decenni precedenti e a cui fa palesemente riferimento in molte scene (da Mississipi Burning a Sleepers, dai film con Sidney Poitiers ad addirittura Magdalene per la parte degli abusi e della fuga), mentre pesca a piene mani nell’immaginario di Terrence Malick, con inquadrature fisse, piani sequenza, riprese estreme dal basso, dettagli in primissimo piano che lasciano sempre qualcosa sullo sfondo o fuori campo amplificando la tensione emotiva e l’angoscia dei protagonisti.
Un compitino che, a tratti, risulta prevedibile persino nel colpo di scena se si fa molta attenzione, ma il lavoro migliore, anche se un po’ caotico, confuso e per niente innovativo o originale (altri ne sono già ricorsi ampiamente e con risultati notevoli), è nell’uso della soggettiva, seppur esasperato (ed esasperante), e degli effetti sonori con i rumori distorti che in certi momenti fanno addirittura sobbalzare dalla poltrona come nella tradizione del miglior cinema horror. Ebbene sì, tutto (tutto!) il film è girato in questo modo! Le soggettive appartengono soprattutto a Elwood e Jack, con addirittura le stesse scene ripetute da più angolazioni, ma anche dei loro cari e, più raramente, degli stessi aguzzini. Lo ripetiamo, in alcune scene contribuiscono a rafforzare l’emotività nonché l’identificazione da parte dello spettatore, però il pregio alla fine è tutto qui, in una buona perizia tecnica che rischia di far venire la nausea e il mal di testa allo spettatore. E l’alternanza continua e senza un attimo di respiro si tramuta ad un certo punto nel difetto principale della pellicola, aggrovigliata nel suo stesso virtuosismo.
A ben pensarci, se il film fosse stato girato più tradizionalmente non avrebbe aggiunto nulla al discorso sulla segregazione ed anzi sarebbe risultato prevedibile, comune e persino noioso; e di fatto lo è. Questo ossessivo sobbalzare di punti di vista, però, angosciante per i neri e colpevolista e ricattatorio per i bianchi riesce perlomeno ad avvicinarsi ad una più complessa ed ampia ricerca psicologica e riflessiva sul razzismo americano degli anni Sessanta che, soprattutto nella parte centrale, lascia comunque il segno e va riconosciuta a Ross una narrazione asciutta, senza fronzoli, che evita la commozione a buon mercato e la lacrimuccia facile.
Magari, abbandonando un po’ di presunzione, in futuro potrebbe partorire film molto più riusciti. Bravi ed intensi gli attori, comunque.