Abbiamo fatto tesoro della grande eredità della Rivolta del 1970?

Io non ho vissuto i Moti di Reggio (sono nato una decina di anni dopo); a 51 anni di distanza dai fatti, posso semplicemente descrivere come li abbia sempre percepiti ascoltando i racconti narratimi nel corso degli anni da chi li ha vissuti, da protagonista oppure da semplice spettatore. Ed ho ascoltato indifferentemente tutti, da destra a sinistra, di conseguenza la mia idea è sempre stata questa: la Rivolta fu un evento epocale, collettivo, unico ed irripetibile, interclassista che coinvolto tutti, ma proprio tutti, influendo (nel bene o nel male, a seconda di come la si guardi) sulla storia e la successiva evoluzione politica e civile di Reggio Calabria. In parole povere, ha sancito la nascita di una nuova coscienza spirituale e culturale nell’animo dei reggini, l’ultima vera sommossa popolare svoltasi in Europa occidentale prima del crollo della Cortina di Ferro.
Come fatto storico, ha saputo svegliare nella cittadinanza nuovi sogni, speranze e ideali vedendo sorgere persino utopie e valori, purtroppo andatisi ad infrangere contro la reazione violenta e smodata dello Stato e sotto i colpi di manganello dei celerini, ma che perlomeno, una volta spentisi gli ultimi fuochi nel febbraio 1971, avevano lasciato nella gente l’illusione che essi avrebbero potuto andare avanti grazie alla ben nota tenacia tipica dei calabresi. E invece? Invece, nel mio costante osservare la Reggio odierna, a malincuore devo spesso constatare che forse l’eredità di quei mesi indimenticabili sia stata sì raccolta (e conservata) dal popolo ma che, complice l’incedere inesorabile del tempo, essa abbia lentamente perso vigore fino a divenire una flebile ombra di quello che era appena terminati i Moti.
Sì, bisogna ammetterlo: negli ultimi anni, ed anche prima, i reggini, dal semplice cittadino alle istituzioni, non amano più la propria città. E’ un enorme paradosso dato che, ancora oggi, si parla di “lotta” e “scontri” per il capoluogo scatenati dall’orgoglio e dal forte senso d’identità che, almeno all’epoca, avevano spinto un’intera cittadinanza a riempire fisicamente strade e piazze a causa delle promesse (non mantenute) e le immense opportunità socio-economiche che l’istituzione delle Regioni come enti territoriali faceva sembrare a portata di mano. Ecco, di tutta questa identità sembrano esserci rimaste poche tracce oggi: quella “rabbia antica” (come la definì l’ex Capo dello Stato Saragat), prima covata a lungo e poi esplosa in modo dirompente e senza alcun preavviso, sembra oggi metabolizzata dai reggini e pronta ogni volta ad emergere solo nell’ormai diffusissimo iper individualismo contemporaneo: dalle strade abbandonate, colme di immondizia abbandonata (e preda di incendi) e buche assassine per le ruote ed i semiassi delle autovetture, all’indifferenza passando per la perdita del senso di comunità e l’economia che arranca fino alle istituzioni, quest’ultime completamente in preda all’affarismo, alla corruzione e alle logiche delle poltrone e dell’egocentrismo, incapaci di ascoltare tutti i cittadini (categorie di riferimento a parte).
Intendiamoci, so benissimo che molti “difetti” della cittadinanza, già preesistenti, sono stati di fatto amplificati e distorti da questa maledetta pandemia da Covid che si trascina ormai da quasi due anni; anzi, spero che, con il ritorno alla normalità, questa rabbia addensatasi tra i rapporti sociali si spenga piano piano, ma spesso nei decenni la rabbia dei reggini, quella sana, spontanea, alimentata dagli innumerevoli disagi sociali ed occupazionali che ciclicamente attanagliano la (nostra) città (come successe anche dopo le disillusioni post Rivolta, ma anche dopo la guerra di Ndrangheta degli anni ’80) ha sempre trovato sfogo sotto diverse forme, quasi come un tentativo disperato di sopravvivere alle avversità armandosi di cinismo ed indifferenza. Prima di passare al discorso politico, voglio dunque ribadire che, per quanto mi riguarda, il disastroso momento sociale che stiamo vivendo abbia delle responsabilità che, lo voglio ripetere, riguarda tutti: cittadini ed istituzioni, poiché proprio la politica di tutti gli schieramenti ha lentamente perso per strada l’eredità morale e materiale della Rivolta, per calcolo o per negligenza, scegliete voi.

Destra e Sinistra reggine

La Sinistra, pur intuendo almeno nel corso della prima parte dei Moti la rabbia sotterranea che serpeggiava nell’ambito della decennale ed annosa “questione meridionale” (inserendola in un contesto generico riscontrabile ad esempio nelle precedenti rivolte di Avola e Battipaglia, ma che ben poco aveva a che spartire con quello che accadde a Reggio) preferì ad un certo punto gettare la spugna a causa di certi evidenti “limiti ideologici” ed anche per una malcelata valutazione politica, in parte giustificata dall’infuocato clima politico dell’epoca (la Guerra fredda, il ’68, le prime stragi che stavano inaugurando la spaventosa stagione degli anni di piombo). Proprio questa Sinistra particolarmente sensibile ai bisogni del popolo reggino e che, almeno fino agli anni Novanta, ha ribadito le migliori intenzioni insite nel sogno del “vessillo” del capoluogo (“Il governo Colombo si è dimostrato particolarmente spietato nei confronti della rivolta di Reggio Calabria che in sostanza […] chiedeva solo giustizia, comprensione e democrazia; […] il governo si è dimostrato insensibile alle esigenze nuove della classe lavoratrice e non si è nemmeno accorto […] che esiste il drammatico e secolare problema del Mezzogiorno. Questa colpa è imperdonabile” dal discorso “Il Mezzogiorno e i suoi problemi” del sen. socialista Antonio Pellicanò, pronunciato in Senato l’11/12/1970), oggi, in un contesto politico profondamente mutato e, mi si permetta, degradato dal nuovo pensiero mainstream, liquida la Rivolta semplicemente demonizzandola, criminalizzandola (fatte le dovute eccezioni) ed ingigantendo marginali episodi (gravi) di cronaca che in qualche modo sarebbero collegati ai Moti per sostenere la tesi della “regia occulta” di una qualche organizzazione “fascio-mafiosa-massonica” che avrebbe pianificato capillarmente e poi scatenato una “terrificante” sommossa popolare (che in realtà si infiammò gradualmente durante i mesi) allo scopo di fomentare l’eversione nera (e chi vi prese parte, o era un complice oppure un fesso manovrato). Domandiamoci invece perché lo Stato italiano abbia reagito con inaudita ferocia alle richieste, legittime, dei reggini: questo è il primo grande mistero rimasto senza risposta.
Ma la Destra? Nonostante ne sia stata l’indiscussa protagonista, la portavoce e l’anima degli umori popolari che fuoriuscivano dai Moti, dato che intuì subito le vere opportunità sociali, identitarie ed economico-lavorative che si palesavano dietro a “Reggio Capoluogo”, a distanza di 50 anni ha ormai ridotto la Rivolta ad un feticcio da uscire fuori solo per ribadirne l’identità e lo spirito, ma questi ultimi continuano a cozzare ed infrangersi contro gli odierni conflitti interni, che partoriscono ininterrottamente fazioni su fazioni secondo l’italico costume delle fazioni forzate, senza provare a concepire proposte e programmi concreti.
Le compagini di tutti i colori hanno negli ultimi anni tradito l’eredità della Rivolta in nome del partitismo, del trasformismo fluido (per usare un aggettivo che ultimamente va tanto di moda) e delle lotte da salottino combattute a suon di comunicati stampa, recriminazioni e like sui social; un lento e triste passaggio dalla cosa pubblica alla cosa ego-privata, ai propri interessi ed al consolidamento del proprio potere con ormai solo la paura costante di “passare per fissa” a fungere da palese collante ideologico.
Lo chiedo di nuovo, e mi rivolgo soprattutto a coloro che hanno vissuto la Rivolta, a chi ne ha fatto tesoro dell’esperienza e delle conseguenze e a chi, pur non avendola vissuta, preserva la memoria e la tradizione per seguitare a tramandarle: possiamo dirci ancora degni dell’eredità del 1970? Facciamoci tutti un esame di coscienza e AGIAMO: in qualsiasi modo, basta che ci diamo una mossa.