Rielaborazione di una recensione comparsa sul sito edicoladipinuccio.it nel 2015

A pensar male si fa peccato e vabbè, ma sono sicuro che tanti di voi avranno compulsivamente fatto click sul post social linkato a questo articolo appena scorte le (bellissime) facce di Gloria Guida e Lilli Carati (quanto ci manca!) nell’immagine in evidenza…mi sto sbagliando? Comunque, a chi non sia rimasto deluso dall’assenza di immagini sporcellute o di video osè (in ogni caso non avrei potuto inserirle, pena lo sputtanamento della monetizzazione) e, soprattutto, non abbia girato i tacchi e voglia proseguire nella lettura, do un caloroso benvenuto ad un’altra recensione della rubrica Cinematocrito (su cui non mettevo mano da circa due anni) dedicata all’esplorazione di pellicole non brutte, ma degne di miglior causa oppure penalizzate dalle idee confuse di chi le ha realizzate non riuscendo a mettere a fuoco le proprie intenzioni artistiche.
Stavolta vi offro l’analisi del film Avere vent’anni, diretto nel 1978 da Fernando di Leo ed interpretato appunto dalle più amate dagli italiani. Attenzione, questa non è affatto una tipica commedia scollacciata anni Settanta ma un film drammatico, nonostante una versione rimontata, tuttora in circolazione, faccia credere il contrario. Ma di questo aspetto parleremo dopo. Anche qui troviamo un’opera controversa che voleva affrontare tematiche ed argomenti molto seri, ma, per attrarre più pubblico possibile, lo fa in maniera superficiale oppure procedendo per accumuli eccessivi.
Peccato, perché poteva essere un film molto interessante, dato che nelle intenzioni del regista doveva essere una sorta di termometro per misurare le tensioni sociali e politiche dell’Italia dei tardi anni Settanta, nonché un’amara riflessione sul tramonto delle ideologie, in cui fa pure capolino in coda un’altra componente non proprio marginale degli anni di Piombo: la violenza. Il regista, d’altronde, in quest’ultimo aspetto era un fuoriclasse: Di Leo, morto nel 2003, è oggi considerato un grande regista italiano di B – movies, rivalutato ed osannato ovunque, soprattutto da Tarantino (tanto per cambiare), riferendosi a lui addirittura come “il Don Siegel italiano”, e lo ha ampiamente citato nel suo capolavoro Pulp Fiction nel segmento di Jules e Vincent. Ed è stato autore della cosiddetta “Trilogia del Milieu”, tre film noir (tra i pochi del panorama italiano) di una cupezza ed una violenza talmente esasperate da trasformarsi in angosciose riflessioni sulla presenza del Male nel mondo: Milano calibro 9 (1972) con un diabolico Gastone Moschin mai più a questi livelli (scordatevi l’architetto Melandri!), La mala ordina (1972) con Mario Adorf e Il boss (1973), uno dei primi film italiani che mostra come l’Onorata Società tanto onorata non fu mai. Diciamolo immediatamente a freddo: Avere vent’anni non rientra tra i suoi film migliori. Indeciso tra momenti comici ed altri drammatici se non addirittura shoccanti, il film non riesce a trovare la sua strada dando l’impressione di non fare sul serio oppure risultando pericolosamente ambiguo.

Trama: Lia e Tina si conoscono durante un assolato agosto in spiaggia e decidono di viaggiare in autostop per un’avventura all’insegna della trasgressione e del sesso. Al grido di “Siamo giovani, belle e incazzate”, approdano a Roma in una patetica comune hippy, gestita da un napoletano inteso come “il Nazariota”; dopo questa deludente esperienza, la comune verrà sgomberata dalla polizia e loro devono tornare con il foglio di via ai rispettivi comuni di origine. Ma sulla strada del ritorno, le due ragazze verranno stuprate e uccise da una banda di depravati.
Già il plot esplica bene quanto detto sopra: il film si destreggia tra vari generi senza combinare una vera sinergia con lo spettatore, giungendo ad un finale agghiacciante che lascia di stucco chi prima si era sorbito scene più leggere o goliardiche, anche se proprio la catarsi del film è paradossalmente il suo pezzo migliore, insieme all’incipit sulla spiaggia, in cui si avverte la mano sapiente del regista, più a suo agio con le scene di azione e di approfondimento psicologico. Comunque, andando avanti tra siparietti comici e generose nudità (i fan della Guida e della Carati hanno di che divertirsi), emergono in qualche modo le tematiche che al regista interessavano.

Di Leo prova a fare il punto della situazione dell’Italia di allora, che ormai si stava affacciando agli anni Ottanta, più pessimista e conscia di aver perso l’innocenza, minata dai conflitti sociali, le lotte politiche e il terrorismo nonché dalla triste consapevolezza di non essere riuscita ad assorbire appieno i cambiamenti culturali e le rivoluzioni ideologiche, che altrove avevano invece trovato un terreno fertile. In questo film c’è tutto: il Sessantotto e il incancrenirsi, la rivoluzione sessuale, gli hippy, l’uso creativo (o presunto tale) delle droghe, il femminismo, gli intellettuali falliti della “misura in cui”, la ricerca di nuove espressioni musicali e religiose e, in ultimo, il ritratto grottesco di una società italiana spaventata o, più spesso, indifferente di fronte ai cambiamenti epocali, ma decisa a preservare quel poco che di vecchio e ammuffito era rimasto. Proprio quest’ultimo dettaglio rivela le reali intenzioni del tanto criticato finale, che costò a Di Leo accuse pesanti di maschilismo e moralismo della serie “se la sono cercata”: in realtà, è vero il contrario. Per due ragazze come le protagoniste non ci può essere posto in una società che non sopporta i i mutamenti oppure spera di poterli contenere ed omologare, ma neppure in quegli ambienti in cui il rinnovarsi viene percepito solo come una scusa per drogarsi ed abbandonarsi ad orge, esperienze di ogni tipo e declamazioni irte di sbiadite ideologie.
Quindi, le battutacce, il perbenismo, la finta trasgressione, la rivoluzione che non va da nessuna parte, oppure la violenza verbale e fisica, in questo film sono solo la spia di due facce della stessa medaglia, indissolubilmente legate a regole proprie che non lasciano respirare. Quelle due facce sapientemente prese in giro da Carlo Verdone in Un sacco bello (1980) e scandagliate da Nanni Moretti nei suoi primi film, nonché da Marco Bellocchio. Ma in Avere vent’anni tutto questo passa in secondo piano e solamente lo spettatore più attento riesce a captare le disamine appena fatte; per il resto Di Leo si ricorda di essere un regista commerciale dando ampio spazio a situazioni più leggere ed amplessi a gogo (nota per gli ammiratori della commedia erotica: c’è una scena lesbo abbastanza spinta); attenzione, però, non è affatto un male, non fraintendetemi, si percepisce comunque lo sguardo attento di un regista che, appena può, cerca di dare una verità ai personaggi e certe sottolineature non si troverebbero certo nei film di Pierino. Anche per questo, il film è assolutamente da vedere: non aspettatevi volgarità grossolane, anzi il grottesco qui è gestito benissimo con uno sguardo quasi surrealista.

Le due stesse protagoniste sprizzano così tanta energia da risultare surreali: come nei suoi film più riusciti, Di Leo non cerca mai di ispirare empatia verso i personaggi, meno che mai ai suoi protagonisti, così amorali da suscitare rifiuto, ma furbescamente instilla nello spettatore il dubbio che, se è tutto il contesto filmico ad essere ributtante, allora è meglio affidarsi al protagonista di turno il quale, nel corso della trama, dimostra un carattere inaspettato. Ciò succede anche con Lia e Tina: per buona parte del film il pubblico non prova nessuna simpatia per loro, a parte i fan della Guida e della Carati, ma neppure le protagoniste si impegnano molto per apparire simpatiche, un po’ perché sono davvero delle puttanelle che usano spesso il fascino per ottenere qualcosa (vedasi le scene dal tabaccaio o dal professore), in parte perché accade sempre qualcosa che frustra la loro supposta voglia di libertà. Ma nella seconda parte del film, più interessante, le due ragazze sono esplorate psicologicamente e, soprattutto, scopriamo alcuni dettagli del loro passato: Tina è sinceramente intenzionata a fare quello che vuole ed in fuga da un ambiente familiare asfissiante, mentre Lia proviene da un passato di abusi vivendo quindi il sesso incrociandoinnocenza e repulsione.

Via via la loro funzione sembra più quella di uno specchio deformante per le persone, fornendo uno sguardo allargato su alcune frustrazioni in seno alla società: il povero vedovo vessato per anni dalla defunta moglie al quale faranno finalmente vivere un’appagante amplesso, il professore ridicolmente fissato con la ricerca della bellezza e con le frasi fatte (spassosissima la scena con la Carati che finge di eccitarsi ogni volta che lui esclama una precisa parola), la lesbica raffinata e quella che odia gli uomini (facendo poi la moralista con le ragazze), gli stessi occupanti della comune, dal Nazariota, che con la scusa di vendere enciclopedie manda alcune ragazze a prostituirsi, al personaggio di Rico, un ex contestatore divenuto tossico (nel senso di drogato, specifichiamolo) per la delusione di aver visto crollare quello in cui credeva, fino a Romoletto (che in realtà è una talpa della polizia), oppure la ragazza diventata madre di tre gemelli solo perché voleva provare l’esperienza del parto e lo stranissimo Argiumas (interpretato da Leopoldo Mastelloni), un tizio truccato da Pierrot che passa tutto il tempo immobile a meditare, senza mangiare nulla per raggiungere la trasfigurazione e “il supremo Essere”, qualsiasi cosa voglia significare.
Di fronte a cotanta umanità non c’è da stupirsi se la nostra simpatia vada, per forza di cose, alle due spumeggianti protagoniste, colme di difetti ma perlomeno più vitali e paradossalmente innocenti dell’Italia frustrata e ignorante che le circonda; comunque, a volte le loro reali motivazioni non sono perfettamente focalizzate.

Per rispondere alle accuse di misoginia mosse al film, va detto a suo merito che i maschi qui fanno una pessima figura: non se ne salva uno, neppure il povero Rico (che avrà una fugace storia con Tina), nonostante abbia il bel faccino di Ray Lovelock, il quale potrebbe essere l’unico personaggio maschile positivo di tutta la pellicola, ma è perennemente stordito dalla droga. O forse è il migliore proprio per questo, essendo anche l’unico uomo dell’intera storia che non guarda le due protagoniste con occhi bavosi. Ma anche le donne, a ogni modo, sono caratterizzate davvero caricaturalmente: chi critica le protagoniste, chi vorrebbe esserne la brutta copia, chi ne viene attratta e chi esagera con la demagogia (c’è pure una sequenza in cui un gruppo di femministe legge ad alta voce il manifesto Scum, un testo molto noto allora, scritto da Valerie Solanas, una squilibrata che attentò alla vita dell’artista pop Andy Warhol nel 1968); sì, perché il film sembra voler criticare non il movimento femminista in sé, ci mancherebbe altro, ma le sue derive estremiste (alcune delle quali sono riuscite a trascinarsi fino ad oggi, perlomeno annacquate in farsa). Ma, come detto prima, c’è molta carne al fuoco per quanto riguarda l’analisi ideologica, è come se Di Leo (autore anche del soggetto e della sceneggiatura) volesse dire la sua su ogni movimento politico o culturale dell’epoca; di conseguenza quasi tutto viene proposto, urlato e gettato nella mischia per pochissimi minuti per poi passare ad un altro concetto, generando non poca confusione nella mente dello spettatore. Ma, come reperto di un’epoca irripetibile e tragica, il film va benissimo per un’occhiata.

E arriviamo ad un argomento un po’ spinoso per questo film: gli attori. Qualche anno fa, durante un’intervista, Di Leo dichiarò quanto fosse rimasto poco soddisfatto delle performances di Gloria Guida e Lilli Carati, anche se fisicamente e caratterialmente erano perfette per i ruoli (e infatti le due, nel film, hanno l’aria di chi si sta divertendo un mondo), perché secondo lui in alcune sequenze avrebbero potuto recitare meglio, ma tutto sommato non era pentito della scelta, sapendo che solo loro due potevano esprimere al meglio la gioia e la beata incoscienza dei vent’anni. Comunque, per tutti e tre la pellicola fu un canto del cigno: per Di Leo fu il penultimo film decente della sua carriera, dopodiché ebbe un altro picco creativo con il successivo Vacanze per un massacro (1980), per poi sprofondare nel limbo degli action girati direttamente per l’home video; per Gloria Guida (che esegue anche la canzone che dà il titolo al film) fu tra gli ultimi tentativi di misurarsi in ruoli drammatici prima del definitivo attracco alla commedia scollacciata e dell’incontro con Johnny Dorelli; per la povera Carati (scomparsa esattamente dieci anni fa) si trattò di uno degli ultimi film “normali” girati per mostrare le sue reali doti di attrice (che possedeva, altroché) prima di imboccare negli anni Ottanta il tunnel della droga e della pornografia. Gli altri attori, Vittorio Caprioli, Ray Lovelock, Vincenzo Crocitti, Giorgio Bracardi e Leopoldo Mastelloni, se la cavano egregiamente, alcuni sembrano addirittura convinti del loro ruolo, anche se Bracardi come commissario di polizia è improbabile e caricaturale (ma forse è una cosa voluta), mentre Lovelock, ahimè, non cambia mai espressione ed è probabilmente per questo che interpreta un tossicodipendente.

Ultimo appunto, il direttore della fotografia è il veterano Roberto Gerardi (al suo attivo, tra gli altri, La grande guerra di Monicelli, Matrimonio all’italiana di Vittorio De Sica e Mussolini ultimo atto di Carlo Lizzani).
Un discorso a parte merita la travagliata distribuzione: chiaramente, un finale con uno stupro così brutale e inaspettato (ispirato al famoso caso del massacro del Circeo del 1975) non poteva passare indenne tra le maglie della censura. Tuttora scioccante, è un vero e proprio trauma per lo spettatore che si era in qualche modo identificato con Lia e Tina, e gli ultimi dieci minuti di urla, pianti, violenza solo suggerita, ma non per questo meno agghiacciante (l’orrido “impalamento” di Tina popolerà sicuramente i vostri incubi) sono davvero insostenibili; per giunta, il film termina così, senza una riga di dialogo o commento, con gli assassini che se vanno e i titoli di coda sui cadaveri martoriati delle due povere ragazze. Una chiusura senza speranza non consigliabile a chi ha conosciuto le due attrici con i film comici (cioè, la maggior parte degli spettatori).
Già i distributori regionali dell’epoca preferivano agire d’iniziativa tagliando il finale e ripetendo la scena iniziale delle due ragazze che chiedono l’autostop; in seguito, dopo appena una settimana di programmazione, nell’ottobre 1978 la pellicola fu ritirata dalle sale, furono eliminati il finale, l’inizio in spiaggia (chissà perché, è importante per capire come si conoscono le due protagoniste), le scene più spinte e rimontata con una pessima musica, un happy end e prediligendo i toni da commedia rispetto a quelli drammatici. In questa versione, il film fu ridistribuito nel 1979, ma passò inosservato. Durante il decennio Ottanta, fu pubblicato in videocassetta ulteriormente rimontato, con un nuovo doppiaggio e l’aggiunta di un paio di scene inedite, ma completamente stravolto nella storia e nel significato, facendo passare le protagoniste per due scemotte costantemente nei guai. Queste versioni sono state anche trasmesse in televisione, finché nel 2004 è uscita in Dvd la versione originale voluta dal regista, con il reintegro del finale violento. Infine, qualche anno fa la Raro Video, nell’ambito della collana “Il cinema segreto italiano”, ha fatto uscire una Collector’s Edition del film, composta da due Dvd contenenti rispettivamente il director’s cut e la versione rimontata di Avere vent’anni. Forse non sarà un film maledetto, come sostengono alcuni da anni, ma un buon film mancato certamente sì.