“Who wants to live forever” non è solo il titolo di una straordinaria canzone dei Queen: è soprattutto un manifesto di vita, un monito nascosto dietro una domanda, abbracciato solo da pochi “eletti”, da quei grandi nomi della musica che continuano a resistere, a rigenerarsi anche dopo la loro precoce dipartita. Non vi è dubbio alcuno che tra gli Highlander, gli eterni immortali delle sette note, possiamo annoverare l’indimenticabile frontman dei Queen, quel Farrokh Bulsara nato nel 1946 a Zanzibar che il mondo intero imparerà a conoscere ed amare con il nome di Freddie Mercury.
Il cantante – talento indiscusso, voce inimitabile, animo tumultuoso – morì il 24 novembre di trent’anni orsono, stroncato da un male che allora tutti temevano ma nessuno riusciva a gestire: l’AIDS.
Eredità immortale
Il 24 novembre 1991 è da sempre una data drammatica per i fan della band inglese e per gli appassionati della buona musica. A poco più di ventiquattro ore da un comunicato stampa ufficiale, in cui Mercury ammetteva di essere affetto da AIDS, il cantante si spense a causa di una broncopolmonite provocata dalla malattia non prima, però, di aver regalato un’ultima gemma ai suoi affezionati seguaci: il videoclip della canzone “These Are the Days of Our Lives“, nel quale appare stanco, dimagrito, provato da un male che ancora oggi miete un numero seppur minore di vittime.
“E’ giunto il momento di far conoscere la verità ai miei amici e ai miei fan e spero che si uniranno a me, ai miei dottori e a quelli di tutto il mondo nella lotta contro questa terribile malattia“, dichiarò il compianto frontman dei Queen nel suo ultimo comunicato stampa prima di lasciare il mondo terreno circondato dall’affetto di chi lo conosceva bene: Jim Hutton, il suo compagno; Mary Austin, la sua ex compagna ed eterna amica; Joe Fanelli, il suo chef personale; Peter Freestone, l’assistente personale. Il cantante fu letteralmente perseguitato dalla stampa britannica e non solo, desiderosa di ottenere informazioni pruriginose sullo stato di salute di Mercury. La vita privata del rocker, del resto, fu sempre oggetto di congetture e suscitò scalpore a causa delle sue preferenze sessuali: Mercury tentò sempre di tenere ben protetta la sua sfera privata, non esponendosi mai pubblicamente nonostante i pettegolezzi che avevano preso piede durante la sua prolifica carriera. E’ proprio la sua produzione (e non la sua presunta bisessualità od omosessualità) l’eredità “pesante” che Freddie Mercury ha lasciato a colleghi, “avversari”, fan: ben quindici album di successo, singoli suonati in tutto il globo, videoclip ammiccanti e “futuristici”. Le nuove generazioni cresciute a pane e trap non disdegnano di ascoltare brani iconici come “The show must go on“, “Radio Ga-Ga“, “Under Pressure“; le “vecchie leve”, i cosiddetti boomers, inneggiano con orgoglio alla superiorità artistica di band come i Queen o i Nirvana, di cantanti come Mercury, Bowie, Prince.
Trent’anni dopo, nonostante la musica possa essere cambiata, il mito di Freddie Mercury non accenna ad appannarsi, anzi. Al cantante è stata dedicata una pellicola che potrebbe avere un sequel – “Bohemian Rhapsody” – in onda su RaiUno proprio il 24 novembre con protagonista un Rami Malek la cui interpretazione, seppur discutibile, è stata premiata con un Oscar; i suoi brani continuano ad essere ascoltati, cantati, scaricati e condivisi; in sua memoria (o forse, sfruttando la sua memoria) due terzi della band originaria (John Deacon, distrutto dalla morte dell’amico e collega, decise di ritirarsi dalle scene qualche anno dopo la morte di Mercury) continuano a far risuonare negli stadi di mezzo mondo le hit dei Queen, accompagnandole con la voce bella, ma non paragonabile a quella di Mercury, di Adam Lambert. Trent’anni dopo, l’unica cosa ad essere davvero scomparsa è il corpo “fisico” di Freddie Mercury. La sua anima, la sua voce, la musica continuano invece a vivere. Per sempre.