“Mi vien che ridere” era una delle sue battute più celebri, un vero tormentone degli anni Settanta (e non solo), anche se questa volta da ridere c’è ben poco, anzi nulla: ad 87 anni se n’è andato per sempre Lando Buzzanca, tra gli ultimi rappresentanti della commedia italiana che fu, quella vera, sana, grottesca e senza alcun filtro politicamente corretto e rompiscatole. Da tempo affetto da demenza senile, Buzzanca era ricoverato al policlinico Gemelli di Roma dopo aver subito la rottura di un femore a seguito di una caduta.
Gerlando all’anagrafe, era nato a Palermo nel 1935 da una famiglia attiva nel teatro e nello spettacolo (attore era lo zio Gino Buzzanca, comparso in diverse pellicole di Franco e Ciccio, ed interprete lo era anche il padre Empedocle); dopo aver conseguito negli anni Cinquanta il diploma di recitazione presso l’Accademia “Pietro Scharoff” di Roma, Buzzanca inizia a muovere i primi passi sulle scene teatrali, ma non passa molto tempo che indirizza il suo talento verso il cinema, facendo come tanti la gavetta nel ruolo di comparsa (lo si riconosce immediatamente nella scena degli schiavi nel deserto del kolossal [pluri] premio Oscar Ben Hur) per poi riuscire a farsi notare con due ruoli complementari nelle commedie-capolavoro Divorzio all’italiana (1961) e Sedotta e abbandonata (1964), entrambi diretti dal grande Pietro Germi. Specialmente nel secondo, Buzzanca lascia il segno interpretando Antonio, il fratello della sedotta del titolo impersonata da Stefania Sandrelli, che possiamo considerare un po’ come l‘archetipo dei suoi personaggi futuri: la tipizzazione mostruosamente comica di certi protagonisti della letteratura siciliana (specialmente Brancati, di cui interpreterà l’adattamento cinematografico di Don Giovanni in Sicilia diretto da Alberto Lattuada nel 1967), ossessionati pressoché con angoscia dalla sessualità, sostanzialmente buoni ed ingenui, costretti a combattere contro i pregiudizi e la cattiveria del mondo, benché non riescano mai a sottrarsene fino in fondo e finendo successivamente per adeguarsi o soccombere del tutto.
Da questo momento in poi, la sua carriera spiccherà il volo; dovrà accontentarsi per qualche tempo ancora di destreggiarsi con parti secondarie e caricaturali, ma perlomeno il suo nome finisce quasi sempre sui cartelloni di pellicole (anche drammatiche) dirette da registi di serie A come, oltre i già citati Germi e Lattuada, Elio Petri, Antonio Pietrangeli, Dino Risi, Nanni Loy, Vittorio De Sica o Luigi Zampa. Nel frattempo, durante tutti gli anni Sessanta compare da protagonista in diversi film di serie B o commedie qualitativamente scarse che, se da un lato contribuiranno ad alimentare un certo pregiudizio nei suoi confronti da parte della critica (perdurato fino a a non molti anni fa), dall’altro conquistano immediatamente il pubblico grazie al suo faccione da Commedia dell’Arte, l’irresistibile simpatia ed una spontaneità che fanno quasi a cazzotti con i cliché in cui era suo malgrado imprigionato (leggi: il meridionale da macchietta, un po’ suonato un po’ furbo).
Una svolta importante arrivò comunque nel 1970 e non per merito del cinema, bensì della televisione e della radio: tra gennaio e marzo di quell’anno infatti, Lando comparve da protagonista, assieme a Delia Scala, nello show tv Signore e Signora, che ebbe un successo tale da restare impresso nella memoria collettiva quasi quanto gli sketches e le frasi memorabili di “Fantozzi” (e da cui proviene la citazione dell’incipit di questo articolo): nei ruoli di Ciccino e Ciccina, Buzzanca e la Scala incarnano per la prima volta, anche se in chiave comica, una coppia moderna di coniugi alle prese con i problemi quotidiani, senza più quei triti stereotipi matrimoniali che tanto avevano imperversato nei programmi Rai degli anni Sessanta, non a caso trasmessi in un periodo in cui in Parlamento si era iniziato a discutere il disegno di legge sul divorzio. Lo show continuò poi, con il medesimo riconoscimento popolare, anche in radio con il programma Gran Varietà, che Buzzanca portò avanti con altri personaggi fino alla fine degli anni Settanta.

All’inizio degli anni di piombo, dunque, la consacrazione a protagonista indiscusso gli permette di scegliere accuratamente le sceneggiature che gli vengono proposte, continuando per ragioni squisitamente economiche a comparire in filmetti di poco conto, ma imponendosi comunque come mattatore di commedie di ampio respiro politico-sociale, che tengono conto delle grandi trasformazioni del contesto italiano dell’epoca, spesso ispirate a racconti e romanzi e, in alcuni casi, curiosamente profetiche di alcuni vizi e costumi odierni. Alcuni esempi: l’esibizionismo e il sesso cerebrale pre social in Il merlo maschio di Pasquale Festa Campanile (1971); la malapolitica nel quasi horror All’onorevole piacciono le donne di Lucio Fulci (1972, cliccate qui se volete leggere la recensione); le organizzazioni sindacali intrise di ideologia che non rappresentano più i lavoratori ne Il sindacalista di Luciano Salce (1972); le elucubrazioni di una certa classe intellettuale che non sa guardare oltre il proprio ombelico in Io e lui sempre di Salce (1973, inutile specificare chi sia il fantomatico “lui”!); l’incredibile e assurdo (con il contributo di Pupi Avati alla sceneggiatura) Il cav. Costante Nicosia demoniaco di Lucio Fulci, che accosta vampirismo e gallismo al capitale (1975, vedere per credere!). Con il rapido emergere della commedia scollacciata, Buzzanca iniziò a latitare dal cinema preferendo dedicarsi alla radio, come già accennato, ed al suo primo amore, il teatro, non lesinando tuttavia apparizioni ancora sul grande (come nel cult Vado a vivere da solo con Jerry Calà, diretto da Marco Risi nel 1982) e il piccolo schermo (condusse anche Striscia la Notizia nel 1991).
Durante gli anni Duemila, dopo aver accettato e poi rifiutato la parte di Mangiafuoco nel Pinocchio di Roberto Benigni, il siculo per eccellenza del cinema italiano si rifà l’immagine (almeno per i critici, non certo per il pubblico che non ha mai smesso di apprezzarlo) nelle vesti drammatiche del dispotico Giacomo Uzeda ne I Vicerè di Roberto Faenza (2007), tratto dall’omonimo romanzo di De Roberto, che sbalordisce chi lo aveva sempre considerato un attore di serie B, mentre lo riconferma interprete a tutto tondo allo sguardo di chi invece ne riconosceva lo straordinario talento. Ma sarà il canto del cigno: dopo qualche altra comparizione in diverse serie e show televisivi, l’incedere della malattia e di difficoltà nella sfera privata prenderà il sopravvento.

Buon viaggio, Lando...