Prima di incominciare, vi pongo una domanda: conoscete i film dell’americano Spike Lee? Sì, l’incazzoso regista nero (lo sottolineo perchè lui per primo ci tiene) che produce e dirige film basati sul fomentare il senso di colpa degli Wasps d’oltreoceano. In una sua deliziosa pellicola del 2000, “Bamboozled“, nella scena finale il protagonista guarda una videocassetta che contiene, montati in sequenza, tutti gli stereotipi e i luoghi comuni negativi che, almeno fino agli anni Sessanta, hanno caratterizzato i personaggi afroamericani nel cinema hollywoodiano: occhi sgranati, imbecillità genetica, gag di dubbio gusto sul colore della pelle, labbroni gommosi, linguaggio sgrammaticato, effettivamente il cinema statunitense di una volta non andava troppo per il sottile con le caratterizzazioni etniche, anche se questo atteggiamento viene ancora oggi tirato fuori per attaccare questa o quella minoranza (ed in passato lo hanno fatto anche con gli italoamericani, per dirne una). Ecco, io mi sento come Lee ogni qualvolta vedo un vecchio film italiano (molto spesso una commedia) infarcito dei peggiori e pesanti luoghi comuni sui meridionali; per carità, mi rendo conto che la rabbia sotterranea che trapela in diverse pellicole del buon vecchio Spike è di carattere socio-politico (negli Usa la questione razziale è e rimarrà un problema irrisolvibile, a mio avviso) come so anche che le caratterizzazioni regionali, nel cinema di casa nostra, sono state spesso molto pesanti. Ma quelle sui meridionali, ammettiamolo, avevano il sapore, più che di una presa in giro, di una codificazione della mentalità di una volta che tendeva a vedere il Sud come un’appendice superflua della Penisola italiana, una terra di nessuno annessa a forza al Regno d’Italia prima e alla Repubblica poi, e continuamente bisognosa di aiuti morali e materiali. L’uomo del Sud, in un certo cinema italiano, non è una caricatura come può esserlo, ad esempio, il romano, il toscano oppure il milanese, ma uno psicopompo che racchiude in sè i timori dell’Italia del boom economico, ansiosa di piacere al mondo e giustamente (per carità) pervasa da un sentimento di rivalsa dopo la fame patita dal primissimo dopoguerra fino alla fine degli anni Cinquanta, quell’Italia che voleva essere “moderna” a tutti i costi ma che alla fine si è solo auto svalutata nella sua cultura. Il meridionale, o meglio, quel meridionale rappresentato nelle pellicole era la rappresentazione fisica di quella paura di non essere all’altezza di altri Paesi più “progrediti”, l’angoscia di sembrare troppo “arretrati” e di “mentalità ristretta”, come se la nostra cultura popolare (quella dell’Italia tutta) fosse un parente scomodo da tenere nascosto. In quei film, il meridionale era inopportuno, fastidioso, da allontanare immediatamente altrimenti combinava guai, il viscido che di sicuro avrebbe approfittato della situazione; e non credo di esagerare, dato che questi luoghi comuni persistono in una certa commedia all’italiana.
Il cinema italiano della prima metà del Novecento, curiosamente, quello del muto e poi dell’era fascista, non fu mai veramente critico verso il Sud Italia limitandosi spesso a produrre riduzioni filmiche dei grandi autori meridionali dell’Ottocento (Verga, Pirandello, Deledda, Capuana) senza calcare la mano e senza neppure dare un’idea di arretratezza quando si doveva passare alle inevitabili scene rurali oppure di malavita, semmai dando il la ad un certo cinema popolare che avrebbe avuto alterna fortuna fino ai primi anni Ottanta (i film di Matarazzo, la leggenda di Assunta Spina e tutto quel corollario di vita rustica). E’ a partire dagli anni Cinquanta che inizia la parabola discendente del meridionale al cinema, nonostante gli strepitosi successi dei comici del Sud, Totò e Peppino in testa: per esempio, forse a causa del fenomeno del banditismo separatista, ecco che il siciliano diventa il personaggio minaccioso, con coppola e baffi di ordinanza, che troppo spesso entra in campo quando iniziano i problemi per i protagonisti; e non si tratta solo del cinema comico, no, ce n’è anche per quello drammatico, vedi “In nome della legge” di Pietro Germi (1949) (che però creò involontariamente gli stereotipi, come fece poi negli anni Sessanta). E tornando a parlare dei sommi Totò e Peppino, per buona parte degli anni Cinquanta furono alcuni loro film che contribuirono non poco a generare qualche pesante luogo comune, come ad esempio “Totò, Peppino e la malafemmina“, che pur nella sua divertentissima comicità abbozzò la figura del meridionale ignorante e spaesato, semianalfabeta, che incontra la grande città. Ma è negli anni Sessanta, quelli dell’emigrazione di massa dal Sud verso le aeree urbane industrializzate, che l’immagine dell’uomo meridionale raggiunge dei tratti non solo comici, ma grotteschi, inquietanti.
E’ il caso, purtroppo, di capolavori come “Divorzio all’italiana” e “Sedotta e abbandonata” dell’incolpevole Germi, che anzi usava il grottesco e il luogo comune come strumenti per criticare la mentalità pesantemente provinciale dell’Italia di allora, per nulla desiderosa di abbandonare l’ipocrisia, il trasformismo e il doppio gioco. Il gran successo dei due film contribuì ad alimentare falsi miti sulla Sicilia, al punto che qualcuno definì “Sedotta e abbandonata” come un film antimeridionale. Ma il peggio arrivò con le commediole, persino i primi film degli ottimi Franco e Ciccio erano costruiti con luoghi comuni che, più che risaputi, erano completamente beceri e gratuiti. Ma c’era anche chi, come Germi, riusciva ad andare oltre lo specchietto per le allodole dello stereotipo e a trarne fuori qualche riflessione: è il caso di “La ragazza con la pistola” di Mario Monicelli, che esagera volutamente con l’ambientazione meridionale per tirare fuori un ritratto non scontato di emancipazione femminile, ma anche il cinema urlato della Wertmuller degli anni Settanta, vedi “Pasqualino Settebellezze” (ritratto del qualunquismo italico) o “Travolti da un insolito destino” (dove i luoghi comuni diventano metafora di lotta sociale). Ma anche nel cinema più commerciale c’era chi cercava di fare discorsi diversi con l’uso sapiente delle caratterizzazioni grottesche: Lucio Fulci (sì, non ha diretto solo film horror) nel 1964 diresse la commedia a episodi “I maniaci“, il cui capitolo “L’autostop” mette in scena la lotta mentale di pregiudizi tra un siciliano e un monzese che gli dà un passaggio con la macchina, interpretati rispettivamente da Walter Chiari e Umberto D’Orsi, davvero divertente. E non dimentichiamo anche alcune sue commedie degli anni di piombo, soprattutto quelle con protagonista Lando Buzzanca.
Negli anni Settanta, la figura del meridionale si associa sempre più a quella del mafioso o del criminale soprattutto nei “poliziotteschi” come “Napoli violenta”, ma anche in altre pellicole più noir come “Milano calibro 9” o “La mala ordina“, entrambi diretti da Fernando Di Leo, anche se il Luca Canali di Mario Adorf, protagonista della seconda pellicola, ha uno spessore morale non indifferente per un personaggio di quel genere di film. Ed è imperdonabile che in “Avere vent’anni”, sempre dello stesso regista, gli orridi stupratori nel finale abbiano uno spiccato accento del Sud (quasi per farsi perdonare, il regista, pugliese di nascita, in una successiva riedizione del film li fece ridoppiare in un italiano impeccabile).
Si potrebbe anche obiettare che molti film facessero riferimento ad episodi di cronaca di quegli anni, ma il problema è che poi, nella trasposizione cinematografica, chi faceva il lavoro più sporco aveva sempre e solo caratteristiche “terrone” e con una certa insistenza, per giunta. E’ un caso? Io non credo. Persino in diversi film di Tinto Brass, tanto per cambiare genere, i personaggi negativi sono “lombrosianamente” del Mezzogiorno.
Oggi si assiste ad una inversione di tendenza che però, secondo me, va comunque a discapito del Sud Italia: l’esaltazione della malavita, il proliferare di canzoni e serie televisive, parole e termini mafiosi e/o camorristici scimmiottati anche dai ragazzini degli hinterland settentrionali sembrano ribadire l’idea che il meridionale, per essere figo, debba comunque sembrare “tosto”. Per tornare a parlare di Spike Lee, è come quando si assiste negli Usa ai bianchi patiti di hip hop che vorrebbero essere neri: è senso di colpa o ulteriore denigrazione? Chissà.

 

 

2 pensiero su “#Ilrompipalle/”Miiiiiinchia!”, il cinema italiano e gli stereotipi sui meridionali”
  1. Condivido in pieno la tua analisi ! Che “personaggetti” siamo capaci di creare!

  2. La questione meridionale purtroppo non è stata mai risolta!Ma Peppino non si poteva fare i cazzi suoi;forse se l’avesse fatto non sarebbe morto solo a Caprera nè ferito in Aspromente!

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