Rielaborazione di un articolo comparso sul sito edicoladipinuccio.it nel 2014

Il film, del 1972, è stato diretto, con pochi mezzi, dal bergamasco Giulio Questi; Questi (1924 – 2014) ha diretto solamente tre lungometraggi, in collaborazione con lo sceneggiatore/montatore Franco Arcalli (scomparso nel 1978): il west “Se sei vivo spara” (1967) con Tomas Milian, un film d’inaudita violenza e ferocia da essere considerato la zona d’ombra dello “spaghetti western” (e puntualmente citato da Quentin Tarantino in “Kill Bill 2” e “Django Unchained”); “La morte ha fatto l’uovo” (1968) con Jean Louis Trintignant e Gina Lollobrigida, una lugubre parabola sul consumismo intrisa di immagini scioccanti; e poi il nostro “Arcana”, interpretato da Lucia Bosè e Maurizio Degli Esposti, incappato, come tutti i film di Questi, nelle forbici della censura. E vedremo perché. “Arcana”, fino a pochi anni fa, è stato il film meno conosciuto del regista nonché quello più difficile nelle tematiche e nella realizzazione: girato in povertà, fu distribuito a stento in Italia perché il produttore (un industriale milanese) andò in bancarotta mentre la pellicola era in post produzione. Dopo una fugacissima sortita nelle sale, esso scomparve per riapparire ogni tanto nelle tv locali, per giunta tagliuzzato in molte parti considerate troppo spinte.
La versione integrale si è salvata grazie al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma che ne conservava una copia, successivamente restaurata e duplicata. Considerando che Questi voleva forse essere il Bunuel italiano, il film è un tentativo confuso, ma sincero, di produrre un certo cinema d’autore nel nostro Paese; la carne al fuoco è però molta tanto che il sottoscritto, durante la visione, credeva di avere davanti una supercazzola di un’ora e un quarto! La trama è abbastanza lineare: la vedova Tarantino, meridionale emigrata da anni a Milano, spilla soldi a diverse persone spacciandosi per veggente e millantando le prodigiose capacità taumaturgiche del suo unico figlio. Ma il giovane possiede davvero dei poteri paranormali e, dulcis in fundo, non ha nemmeno il cervello a posto. Le conseguenze saranno ovviamente terribili. Il soggetto sembra buono per un horror di serie C, ma Questi riesce a trasformare una storia banale in un pamphlet (pare di capire questo) sulla pericolosa suggestione che la magia e la superstizione continuano, anche nel tecnologico Novecento, ad esercitare sugli individui, oltre a riflettere sull’eterno conflitto tra vecchia e nuova Italia. Per gustarsi il film bisogna dunque abbandonare ogni logica e lasciarsi guidare da immagini enigmatiche come il titolo del film.
La didascalia iniziale è molto utile in questo percorso: paragonando il film ad un gioco di carte, specifica che nulla di quanto viene mostrato è credibile. Partendo da questo presupposto, lo spettatore può mettere da parte il bisogno di comprensione. Anche perché Questi pare suggerire che comprendere è inutile, bisogna assuefarsi ad un significato arcano, appunto, che nasce direttamente dalle immagini; la storia, di conseguenza, non è importante. I due stessi protagonisti non hanno neppure un nome, a parte il cognome Tarantino, non sappiamo da quale zona del Sud provengano (la madre dice solo “giù da noi”) come non sappiamo nulla di loro: si sa solo che la madre della donna aveva fama al suo paese di maga consultata per fatture e filtri e che il marito della Tarantino, nonché padre del ragazzo, è morto cinque anni prima investito da un convoglio in una galleria della metropolitana dove lavorava come operaio, la cui atroce morte è alla base dei problemi mentali del figlio. Il rapporto tra madre e figlio è teso e ambiguo; il ragazzo, in particolare, sembra avere in odio il mondo intero, disprezza i clienti che vengono a casa sua a farsi leggere le mani o le carte e detesta la madre che, pur avendo le potenzialità per essere maga come la nonna, preferisce mentire ai clienti propinandogli filtri che non servono a nulla, oppure non sopporta che la donna prenda in giro le persone. D’altra parte, i clienti della madre sono in maggioranza dei disgraziati, delle persone sole che, come sottolinea la donna stessa, “amano sentir parlare di sé”; quando però cadono in trance, si spalancano i loro mondi di solitudine e difficoltà quotidiana, ma non si sa quanto questi siano ispirati dai poteri del figlio, che entra in azione ogni volta che i clienti cadono in un deliquio da ipnosi. Come detto prima, in molte di queste scene si respira un’aria di emarginazione quasi struggente, il nulla della metropoli che prende forma. Ma più aumenta il giro di clienti più l’equilibrio psichico del giovane va a farsi benedire: gradualmente capiamo che è proprio lui, tramite complessi rituali, a fare in modo che le persone continuino a tornare dalla madre, fa quasi in modo che le disgrazie aumentino e, come succede in molte scene, il ragazzo sembra anche in grado di guidare la volontà della gente e questo spiega alcune situazioni incomprensibili che accadono qua e là nel corso del film.
La madre ne è al corrente e lo lascia operare per veder aumentare gli introiti: ma quando il figlio, ormai in preda alla megalomania, chiede alla donna di farsi dire gli ingredienti per un filtro potente da preparare appositamente per lui, l’equilibrio tra i due si spezza. All’inizio la santona si rifiuta, conscia della pericolosità dei poteri del giovane, ma viene costretta dal figlio il quale, in una sequenza cruda e comprensibilmente censurata a suo tempo, lega la madre al letto e praticamente la violenta (in un’altra scena precedente, i due hanno palesemente un rapporto intimo). “Arcana” è un film estremo, non si ferma davanti a nulla e arriva a mostrare l’orrore dell’incesto svelando riti che si ricollegano al mito e alla notte dei tempi. I due protagonisti senza nome hanno a che fare con situazioni apparentemente sconnesse, ma che sottolineano l’indissolubile bisogno dell’uomo di cercare conforto nell’occulto e nella magia: il fantasma psicanalitico dell’incesto sembra riportare bruscamente alla luce il mito stesso di Edipo, i riti magici si protendono verso un passato in cui il legame tra l’uomo e la natura era ancora solido. Questi rende affascinante il suo film raccontando il paranormale e l’ancestrale tra i moderni palazzoni meneghini, sottolinea che chiunque può subire il fascino della magia, ma sembra voler anche dire qualcosa sull’Italia dei primi anni settanta, quell’Italietta che aveva ormai raggiunto il benessere, ma stava completamente perdendo il senso dell’appartenenza alle proprie origini arcaiche, in primo luogo la civiltà contadina, dei cui simboli il film è pieno.
E qui si arriva all’estro surreale di Questi che, per sottolineare un punto di vista antico, fuori dai moderni canoni borghesi, si affida a momenti anche ributtanti per sottolineare quelle ritualità arcaiche che l’Italia aveva ormai archiviato: un cliente della madre che se la fa addosso mentre è in trance; il figlio che, in una discarica, giocherella con i denti estratti dalla carcassa di un asino; il ragazzo che, addentrandosi nei cunicoli della metropolitana, rinviene un braccio mozzato, un cadavere ed un topo morto; un flashback (forse) che mostra un asino sospeso con delle corde in un casolare sperduto di un’assolata campagna del Mezzogiorno, in quello che sembra un superstizioso rituale campagnolo; la scena più famosa del film, quella della madre/santona che, durante un’inquietante danza propiziatoria tra violinisti vestiti di nero e bamboline infilzate con spilloni, vomita rane vive. Sono tutte scene che lasciano basito lo spettatore, ma per fortuna trovano sempre una spiegazione nei dialoghi. La seconda parte del film è migliore, occupata dal duello a distanza tra la madre e i poteri del figlio e dal tragico finale. Come già accennato, il giovane riesce con i suoi poteri a controllare la volontà delle persone che lo circondano e dell’intero quartiere; l’aspetto strano del film è che tutto, dai riti alle magie, viene dato per scontato, senza mai far balenare il dubbio che, in realtà, si possa trattare di mistificazioni, ma quello che avviene nella seconda parte non sarebbe comprensibile se non ci si attenesse a questa linea di pensiero.
Il ragazzo sposta gli oggetti con la forza del pensiero, fa impazzire i bambini spingendoli a commettere azioni discutibili (come la scena dell’omosessuale aggredito e preso a morsi dai piccoli sulle scale del caseggiato), oppure fa in modo che si verifichino episodi che gli ricordano il padre defunto: gli operai all’inizio del film che si accampano su un marciapiede per guardare le gambe delle donne, la sequenza della metro che si blocca in galleria e viene presa assurdamente d’assalto da alcuni manovali inferociti che terrorizzano i passeggeri (evidente riferimento alla morte del padre) o, ancora, la scena della gente nel corridoio che lecca i muri e l’inquietante vecchia con la bocca grondante sangue e, infine, la polizia che senza motivo spara sulla folla, causando anche la morte della santona. La sensazione è quella di un mondo in preda al caos in cui si combattono delle forze sconosciute di una potenza spaventosa che trattano le persone come dei burattini in mano al destino, dove un’inquietante figura in nero attraversa la città e le campagne suonando ossessivamente il violino; evitando intelligentemente qualsiasi stereotipo sui meridionali e i milanesi, Questi suggerisce che l’arcano ci riguarda tutti, senza alcuna distinzione geografica o culturale. E’ difficile raccapezzarsi in questo confuso susseguirsi di scene enigmatiche, ma è qui che risiede il fascino del film, elemento di un cinema che purtroppo è rimasto allo stato di abbozzo. La confusione, percepita in quegli anni, nasceva dalla consapevolezza che l’Italia stava perdendo qualcosa della sua identità e che il calderone sociale stava scoppiando: “Arcana”, e altri film, hanno avuto il merito di aver avvertito quest’atmosfera incandescente filmandola su pellicola, quell’ atmosfera preludio della scia di sangue che ben presto avrebbe insanguinato gli anni di piombo. Va tuttavia detto che non sempre il film funziona, proprio a causa della sua estrema ermeticità, ma vale comunque una visione per ricompensare un tentativo originale di andare fuori dal seminato.
La confusione descritta prima si ripercuote anche nelle sequenze del film, attraversate da nervose carrellate e macchina a mano, che costituiscono delle soggettive/oggettive che confondono spesso il pubblico, mentre Arcalli fa un ampio utilizzo del montaggio alternato non per spiegare, ma per enfatizzare. La colonna sonora, composta da Romolo Grano e Berto Pisano, è molto suggestiva nel saper mescolare suoni elettronici e musica popolare, come nella succitata scena del violinista; la fotografia di Dario Di Palma, nipote del più famoso Carlo, bella e contrastata, fa un ampio uso di tonalità nere e luce naturale che restituiscono l’idea di primitivo oltre che far intuire un’aria di disfacimento dietro la nuovissima edilizia residenziale dei palazzi milanesi. Ottimi anche gli attori, con una nota di merito per Lucia Bosè, brava nel dare voce e corpo ad un personaggio che diventa via via sempre più sgradevole, e coraggiosa nel prestarsi a sequenze così disturbanti, come quella del rapporto incestuoso o le rane che le escono dalla bocca (senza alcun effetto speciale, vedere per credere!).

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