Rielaborazione di un articolo comparso sul sito edicoladipinuccio.it nel 2013

Di film che affrontano o parlano esplicitamente dell’annosa questione sull’assassinio di John Fitzgerald Kennedy ce ne sono molti; in essi, l’omicidio è inquadrato sotto diversi aspetti: come un evento storico fondamentale, come un incubo ossessivo o come l’origine di tutti i mali dell’America degli ultimi cinquant’anni. Ma veramente poche sono state le pellicole che abbiano discusso seriamente le varie teorie (che durano tuttora) su un “complotto” che avrebbe riunito forze governative e non degli Stati Uniti, al fine di eliminare un uomo dalle idee tanto radicali da scontrarsi con la politica estera paranoica e guerrafondaia degli Usa in piena Guerra Fredda. Sebbene in Europa le ipotesi complottiste avessero preso piede già dalla fine degli anni sessanta, in America si accettava comunemente la convinzione che la morte del trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti fosse avvenuta per mano di un pazzo solitario, tale Lee Harvey Oswald; nonostante diversi libri siano stati pubblicati negli anni settanta a sostegno di queste teorie, l’opinione pubblica Usa non si schiodava da questo pensiero. Si dovette attendere la fine della Guerra Fredda per vedere anche in America un film che svegliasse gli statunitensi e mostrasse loro non la verità, ma la possibile e realistica sequenza di eventi che potrebbero aver portato all’omicidio di Dallas.
Il film in questione è JFK, un caso ancora aperto di Oliver Stone; uscito nel 1991, si trattava di un altro tassello della personale filmografia del regista, allora in piena ascesa, che già aveva dimostrato la sua dirompente vena provocatoria e di denuncia raccontando la disastrosa politica estera americana con Platoon (1986), il corrotto sistema della finanza con Wall Street (1987) (il cui perfido protagonista Gordon Gekko è entrato nell’immaginario collettivo) ed i traumi post bellici dei reduci del Vietnam con Nato il 4 luglio (1989), amara parabola sui sogni infranti della sua generazione. E di Vietnam parla anche JFK, seppur in modo indiretto. Indiretto il modo, ma non la rabbia e la frustrazione di un reduce quale è Stone, che ha combattuto nella giungla vietnamita come volontario per un anno, ricavandoci anche una ferita al braccio; una rabbia più volte esternata nel corso del film, alimentata dalla sincera convinzione che, se Kennedy non fosse morto, la disastrosa avventura militare americana in Asia sarebbe finita sul nascere, perché JFK era sul punto di far ritirare le forze statunitensi dal Paese. Si tratta naturalmente di congetture, non si potrà mai sapere quanto Kennedy avrebbe potuto fare su quel versante, ma non è questo il fulcro centrale del film.

Il film

La pellicola è però difficile da raccontare perché stilisticamente e diegeticamente è un’opera anomala: di una durata spropositata (dura 182 minuti, ma esiste anche il director’s cut di 206’), essa racconta i quattro anni di indagini e vicissitudini (1966 – 1969) che Jim Garrison, procuratore distrettuale di New Orelans, visse sulla propria pelle per far riaprire il caso sull’omicidio di Kennedy, arrivando a trascurare la famiglia e a mettere a repentaglio la vita dei suoi stessi collaboratori pur di dimostrare le sue teorie e far aprire un processo contro alcuni presunti responsabili. C’è da dire che Garrison fu tra i primi tenaci sostenitori che supportarono la tesi del complotto ai danni del presidente Kennedy, complotto in cui ci entrarono tutti, dalle alte sfere governative all’esercito, dalla mafia agli anti castristi cubani, tutti gruppi che avevano interesse a provare rancore verso Kennedy, visto come troppo radicale per il corrotto e obsoleto sistema americano di quegli anni. Ed infatti Kennedy viene descritto da Stone con fin troppa simpatia, descrivendo la sua presidenza come un’età dell’oro mancata, un possibile cambiamento per la società americana bruscamente interrotto, un sogno di tutta una generazione, la cui fine ha trasformato l’America in un inferno cinico e violento (vedi il suo successivo e controverso Assassini nati). E Kennedy sta al film come un’icona immacolata, distante e idealizzato, come dimostrano i titoli di testa del film che ripercorrono, documentaristicamente, tutta la sua carriera presidenziale fino alla sparatoria di Dallas; peccato che alla fine ne esca fuori una forte pedanteria, accentuata ancora di più dall’edizione italiana che aggiunge una noiosa voce fuori campo a commentare. Ma tutto il film deraglia spesso dai binari della fiction e si avventura nel periglioso terreno del documentario e dell’inchiesta: a volte geniale, altre volte lungo e prolisso nella sua foga di voler raccontare ogni minimo dettaglio che può sfuggire. Per fortuna, ci sono la splendida fotografia pastosa di Robert Richardson ed il montaggio serrato, da videoclip, di Pietro Scalia (entrambi meritatamente premiati con l’Oscar) che, ispirandosi a Rashomon, arriva quasi a provare un’altra verità attraverso ellissi, immagini rapidissime, cambiamenti snaturati del movimento e riproponendo le stesse immagini, ma sempre da angolature diverse. Ed i retroscena riguardo al presunto complotto vengono raccontati con estrema scioltezza, facendoci anche parteggiare per personaggi ambigui o completamente innocenti (come David Ferrie o lo stesso Oswald, che forse fu solo una pedina in un gioco più grande di lui). Incredibile la quantità di soldi che Stone è riuscito a trovare per finanziare il film, sicuramente molti di più rispetto alle sue precedenti produzioni ed anche a quelle future (solo Alexander ha ottenuto un budget molto più considerevole), come altrettanto esponenziale è stato il numero di divi e attori di buon nome che si sono prestati a ruoli di secondo piano o addirittura di pochi minuti: Jack Lemmon, Walter Matthau, Donald Sutherland, Kevin Bacon, Vincent D’Onofrio.
L’unico consiglio che posso dare a chi legge è quello di vedere il film, perché ci vorrebbero oltre dieci schermate per poterlo raccontare nella sua interezza, e soprattutto spiegarlo. Ottima prova di tutti gli attori, con Kevin Costner nella parte di Jim Garrison: l’attore era allora al massimo della forma, dopo i trionfi di Balla coi lupi e Robin Hood, principe dei ladri, e fece ottenere al film una grossa pubblicità ed un buon impatto sul pubblico. Purtroppo, non trattandosi di un action o un film storico, in JFK Costner si limita a recitare un po’ rigidamente; a volte, quindi, si lascia rubare la scena dai comprimari, in molti casi bravissimi, come Gary Oldman e Joe Pesci, rispettivamente Oswald e l’amico David Ferrie, che riescono a dare ai loro personaggi una grandezza tragica e fatale da copione shakespeariano. Ottimo anche Tommy Lee Jones nella parte del viscido e misterioso miliardario Clay Shaw, considerato a suo tempo da Garrison come il finanziatore del braccio armato del complotto anti Kennedy. Buona visione!

Un pensiero su “#CinemaTocrito# “JFK, un caso ancora aperto”: un film da rispolverare coi retroscena del presunto complotto”

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